Di Pietro Suber* per Senza Filtro
Il dibattito su democrazia e giornalismo, e in particolare sulla responsabilità dei media e dei social network nella diffusione di notizie false, si accende in tutta Europa. Mentre in alcuni Paesi come la Germania si creano delle task force ministeriali contro la proliferazione degli hate speech – discorsi d’odio – in Italia c’è chi propone giurie popolari per giudicare il lavoro dei giornalisti accusati di diffondere bufale. In Francia, recentemente, il Direttore di Le Monde, Jérome Fenoglio, ha scritto un editoriale per allertare sui “rischi di una società in cui le opinioni sostituiscono i fatti”, sottolineando come “la ricerca della verità non sia più un valore condiviso”.
Il direttore del quotidiano francese propone di aumentare reportage e inviati sul campo come anche il fact-checking, il controllo sulla veridicità dei fatti riportati negli articoli. Le Monde ricorda come esempio di bufala mediatica le allusioni fatte più volte all’inizio della campagna elettorale da Donald Trump sul fatto che Obama non fosse nato negli Stati Uniti. Neppure la pubblicazione del certificato di nascita del Presidente Usa bastò a cancellare i dubbi propagati in rete.
Un dibattito che ha rilanciato la campagna Media against hate promossa dalla Efj (European Federation of journalists) contro la diffusione di un fenomeno che riguarda da vicino il rapporto, a volte conflittuale, tra democrazia e libertà di espressione. I discorsi d’odio hanno preso sempre più piede anche nella nostra comunicazione, sui giornali, in televisione e soprattutto sul web. Il punto di vista alla base della campagna è che bloccare l’hate speech non sia censura ma un dovere professionale per chi fa informazione. Nel nostro Paese hanno aderito alla campagna una serie di associazioni come Articolo 21, Carta di Roma, fondata da Ordine dei giornalisti e Federazione Nazionale della Stampa per l’applicazione del protocollo deontologico sui temi dell’immigrazione e dell’asilo e l’Ong Cospe (Cooperazione per lo sviluppo dei paesi emergenti).
Tra gli esempi più noti di hate speech figura il titolo a tutta pagina “Bastardi islamici” del quotidiano Libero dopo gli attentati dei terroristi islamici a Parigi nel novembre del 2015, con l’intento non proprio subliminale di alimentare lo stereotipo “tutti i musulmani sono terroristi”. Un titolo che ha provocato polemiche e denunce alla Procura della Repubblica e all’Ordine dei giornalisti con risultati, almeno al momento, di scarso rilievo.
Un tema, quello delle “opinioni in libertà”, tornato di attualità con la vicenda che ha coinvolto nel 2015 Giorgia Meloni e l’Unar, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio. Dopo una lettera di raccomandazioni inviata dall’Unar alla Deputata – in cui le si chiedeva di usare “messaggi di diverso tenore” in tema di immigrazione (Giorgia Meloni aveva scritto sul web “basta immigrazione da paesi musulmani, sì solo da paesi non violenti come Filippine, Argentina, Ucraina e via dicendo”), la leader di Fratelli d’Italia ha accusato il governo di censura, scatenando polemiche a non finire che hanno portato alla sostituzione dell’ex direttore dell’Unar Marco de Giorgi.
E’ proprio sulla scia di quest’avvenimento che sulla rete sono comparsi esempi classici di hate speech. A farne le spese soprattutto l’ex Ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge che in un articolo pubblicato sulle pagine online de Il Giornale ha difeso l’operato dell’Unar denunciando continue “minacce” e “insulti” ricevuti sul web. Insulti che non sono tardati ad arrivare anche in coda al suddetto articolo: la Kyenge viene definita “negra ex clandestina”, “beduina” e poi “Quante banane al giorno ci costa?”, “Si sciacqui la bocca con l’acido muriatico!”. Il tentativo è quello di far passare la lotta contro l’hate speech come una forma di censura quando la realtà è ben diversa: se una persona dice che Cécile Kyenge deve ‘bere acido muriatico’ – come appare ad esempio in fondo all’articolo del Giornale – chi parla di censura dovrebbe dimostrare che queste sono solo opinioni e libere manifestazioni del pensiero e non, invece, insulti.
Un altro esempio di hate speech che provocò effetti preoccupanti fu quello del pastore della Florida Terry Jones che, nel 2010, si scagliò contro la religione islamica arrivando a bruciare il Corano in occasione del nono anniversario dell’11 settembre. Personaggio sconosciuto e poco influente, grazie a una grande copertura mediatica di livello mondiale riuscì a scatenare reazioni di piazza, proteste diplomatiche e pericolose minacce di ritorsione nel mondo islamico.
La campagna “#nohatespeech – giornalisti e lettori contro i discorsi d’odio” è stata avviata inizialmente con una raccolta di firme sulla piattaforma Change.org e poi attraverso manifestazioni ed eventi con altre associazioni che trattano questi temi. L’iniziativa è rivolta a giornalisti ed editori, ma non solo: si tratta di una campagna di civiltà che coinvolge anche lettori e ascoltatori. Un appello generale indirizzato quindi alle coscienze e alle responsabilità di tutti. Impedire la diffusione dell’odio non è solo un atto di responsabilità civile. È, per chi fa il giornalista, l’adempimento della regola-base della professione, stabilita dalla legge istitutiva dell’Ordine del 1963, quella che impone a tutti i giornalisti il dovere di restituire la “verità sostanziale dei fatti”.
Ai giornalisti, infatti, la campagna chiede “di non restare passivi di fronte ai discorsi d’odio” perché non sono semplici “opinioni”. Trovando il loro fondamento nel razzismo, sono brutali falsificazioni della realtà e contraddicono i principi basilari della convivenza civile. E’ un dovere professionale confutare le affermazioni razziste, chiarire ai lettori e agli ascoltatori la loro falsità intrinseca. Una responsabilità, quella dei giornalisti, a cui non ci si può sottrarre.
Responsabilità che sono ancor più grandi quando gli attori dell’hate speech sono i politici. I giornalisti devono registrare il fatto che è stata fatta una determinata affermazione ma questo non significa che devono lasciare passivamente il microfono sotto la bocca di qualcuno che parla a sproposito. Si assiste spesso a uscite di politici con affermazioni di puro odio che passano alla stregua di opinioni e così si diffonde tra le persone l’idea che gli insulti siano delle opinioni. Per questo motivo si invitano tutti i giornalisti che riportano frasi e dichiarazioni che possano costituire casi di hate speech a riflettere su alcuni punti chiave, come la posizione e lo status di chi parla, la portata e gli obiettivi del discorso, il contenuto e la forma e infine il clima sociale e politico in cui il discorso viene pronunciato (ad esempio durante le campagne elettorali).
Sui temi che riguardano l’hate speech in generale e più in particolare il tema della xenofobia e dell’intolleranza, dall’antisemitismo all’anti-islamismo, dal sessismo all’omofobia, nel maggio del 2016 si è costituita una Commissione ad hoc della Camera dei Deputati intitolata a Jo Cox, la deputata britannica assassinata nei giorni precedenti al referendum sulla Brexit. Un gruppo di lavoro a cui partecipano varie associazioni per la difesa dei diritti umani, tra cui Amnesty International e l’UNHCR, che sta lavorando ad una sorta di rapporto sul’odio in Italia. Questo dovrebbe portare in primo luogo all’emanazione di una Carta dei doveri di Internet.
Si tratta in sostanza del primo tentativo di ragionare insieme, anche sulle modalità di formazione dell’agenda, tra politica, associazioni umanitarie e professionisti della comunicazione. “Un confronto necessario – secondo Giovanni Maria Bellu, presidente di Carta di Roma che fa parte della Commissione Cox – per il sistema dell’informazione che ha nei social network dei formidabili alleati e delle insidiose serpi in seno. Se, infatti, per un verso i social consentono di diffondere in un tempo impensabile i contenuti informativi, per altro verso agiscono come organi di informazione autonomi, spesso privi di un direttore responsabile e animati da una moltitudine di redattori, alcuni dei quali totalmente irresponsabili che diffondono notizie false talvolta configurabili come autentici incitamenti all’odio razziale. Il filtro dei media professionali non è da solo sufficiente in assenza di regole certe che impongano ai social di attenersi alle norme dell’ordinamento giuridico a cui sono sottoposti i loro utenti, i cittadini dei Paesi in cui operano. Questo – sostiene Bellu – è il terreno nel quale gli operatori dell’informazione e la politica devono, con urgenza, incontrarsi”.
Ma per fermare la diffusione dei discorsi d’odio ci sono diversi modalità di intervento. Lo ha dimostrato poche settimane fa l’azienda danese Lego che ha annunciato di aver tolto la propria pubblicità dal tabloid britannico Daily Mail, in prima fila negli attacchi agli immigrati nel Regno Unito. La multinazionale dei giocattoli ha aderito alla campagna del sito britannico Stop Funding Hate (#StopFundingHate) che ha invitato tutte le aziende a fare altrettanto nei confronti dei media che propagano l’odio, la discriminazione razziale, la xenofobia. Per i vertici della Lego è arrivata l’ora di uscire dall’equivoco di fondo: chi dispensa odio non sta esercitando il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Esattamente per la stessa ragione per la quale non esercita questo diritto chi diffama, insulta e calunnia.
I dati relativi ai siti sulla Rete riportano che, nel 2014, sono stati 347 i casi di hate speech segnalati all’Unar, l’ufficio nazionale antidiscriminazioni della Presidenza del Consiglio, di cui 185 su Facebook e il restante su Twitter e You Tube. Un fenomeno in forte aumento nel 2015 e 2016.
Secondo l’Unar, l’hate speech è in continuo aumento soprattutto sui social network. Ed è per questo che l’appello è rivolto anche ai lettori chiedendo di “isolare chi esprime discorsi di odio, di non intavolare con loro alcun dialogo, nemmeno attraverso risposte indignate e di evitare qualunque atto che possa anche parzialmente legittimarli come soggetti di un confronto. Lettori invitati, inoltre, a segnalare alle redazioni i discorsi d’odio perché possano essere cancellati e perché i loro autori vengano privati della possibilità di nuocere e, quando previsto dall’ordinamento dello Stato, denunciati all’autorità giudiziaria.
Contro l’hate speech, serve una “regolamentazione a carattere europeo” che riguardi tutti i media. Nel testo dell’appello su Change.org, ci sono poche ma chiare indicazioni per lavorare ad una ipotesi di regolamentazione. Come quelle riguardanti le testate giornalistiche e i proprietari e gestori dei social network, a cui si chiede di “attuare delle procedure di moderazione che consentano di sopprimere tempestivamente i commenti d’odio e di bannare i loro autori” e di “adottare procedure semplificate per sostenere le redazioni giornalistiche e gli utenti nel segnalare i discorsi d’odio ed escludere i loro autori dalla comunità della rete”.
Un impegno, quello chiesto alle testate e agli editori, che va oltre le questioni tecniche. E’ vero può esserci una difficoltà tecnica da parte dei media ad intervenire con adeguata tempestività sui commenti ma quando un commento razzista resta per due giorni o oltre non può trattarsi di una svista. Per questo servono delle regole condivise con un invito, rivolto a tutte le redazioni giornalistiche che ancora non si sono attrezzate, a sviluppare degli strumenti di moderazione, con l’intervento di amministratori o social media manager ad hoc in grado di eliminare commenti razzisti con l’obiettivo finale di riportare la discussione su toni per lo meno accettabili.
In attesa di segnali concreti in questo senso da parte degli attori principali che controllano il traffico sul web Facebook, Twitter, Microsoft e YouTube hanno promesso di attivare delle procedure per accorciare i tempi di cancellazione dei contenuti on line “di natura odiosa”. E qualcosa di incoraggiante si intravede anche da parte dei media tradizionali. Per restare in Italia in prima fila c’è La Stampa di Torino che mostra molta attenzione ai post pubblicati su Facebook in risposta ai propri articoli. Uno dei casi più noti è stato quello dell’incitamento all’odio generato dalla notizia di una bambina di origine Rom, Nicole, con un quoziente intellettivo superiore a quello di Einstein. Il 9 agosto del 2015 il social media team della testata è intervenuto con un messaggio sulla pagina Facebook dell’edizione nazionale del quotidiano per porre un freno ai numerosi commenti razzisti sotto al post che comunicava la notizia. Piccoli grandi segnali.
*Vicepresidente dell’Associazione Carta di Roma
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