Per mesi e mesi numerose testate giornalistiche hanno raccontato cosa accadeva Idomeni e, a partire dallo sgombero, hanno continuano a narrare il destino dei rifugiati che si trovavano nel campo al confine tra Grecia e Macedonia. Esistono, tuttavia, numerose altre realtà che faticano a emergere, altrettanto ricche di storie e bisognose di attenzione, affinché se ne parli.
Quasi mille persone si trovano nel campo di Katsika. 400 sono bambini.
È il caso del campo greco di Katsika: allestito a fine marzo ospita 940 persone, 400 sono bambini. A vivere qui sono siriani, iracheni e afgani, giunti in Grecia in gommone dalla Turchia.
Ad accoglierli a Katsika duecentocinquanta tende senza fondo né materassi, 15 bagni chimici, 8 docce con acqua fredda. Una cucina e un hammam dedicato alle donne che di recente sono stati chiusi. Presenti nel campo solo tre piccole associazioni Olvidados, The Lighthouse Relief e Rescate en emergencias.
Una situazione che, come molte altre, dovrebbe essere raccontata, ma che fatica a trovare spazio sui media.
In italiano, per esempio, troviamo un unico articolo che parla delle sfide poste dalla convivenza all’interno del campo, sull’Unità TV: “Sopravvivere a Katsika tra diffidenze etniche nel campo profughi“.
Da qui l’idea di due volontarie italiane che hanno prestato servizio nel campo, Silvia e Stefania, di fondare il blog Aiutiamo Katsika, il quale dedica ampio spazio alle storie di chi lo vive ogni giorno.
Volontari e giovanissimi rifugiati nella cucina del campo, chiusa dalle autorità greche.
L’obiettivo del blog è chiaro già dal suo nome: “Il campo di Katsika è lasciato a se stesso – si legge – E ha bisogno di tutto. Materassi per non dover dormire sulle pietre, acqua calda per lavarsi, tettoie per mettersi al riparo dal sole e dalla pioggia e spazi bonificati da insetti e serpenti per dormire e giocare al sicuro”. Ma come chiedere aiuto, se l’opinione pubblica ignora l’esistenza di Katsika e delle persone che lo abitano? Raccontare, condividendo ciò che si sente e si vede, è il punto di partenza.
C’è la storia di Rai, quindicenne iracheno che al calcio preferisce la scuola; quella di Mohamed, che sul display del telefonino ha Einstein e sogna di lavorare al Cern. E poi c’è la vita al campo: le esperienze dei volontari e gli episodi che si susseguono; da quelli amari, come la chiusura della cucina dove venivano distribuiti i pasti a quelli positivi, come le lezioni di “yogalates”.
Raccontare per superare stereotipi e pregiudizi, per umanizzare coloro che spesso sono ridotti a semplici numeri e, soprattutto, per puntare i riflettori sui luoghi dimenticati dai media mainstream.
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