Di Camilla Donzelli su Voci Globali
Secondo il vocabolario Treccani, integrare significa “rendere pieno, perfetto, ciò che è incompleto o insufficiente a un determinato scopo, aggiungendo quanto è necessario o supplendo al difetto con mezzi opportuni”.
Tale definizione presuppone una mancanza iniziale, un’incompletezza di fondo. Incompletezza che però non è necessariamente da intendersi in senso negativo, piuttosto come un’opportunità di miglioramento. Potenzialmente, l’integrazione è quindi un concetto fecondo e dinamico, che sottintende una costante tensione verso la perfezionabilità delle cose.
Eppure, quando si associa il verbo integrare ai fenomeni migratori, il reale significato di questa parola va perdendosi. O meglio, si snatura sotto i colpi della convinzione granitica che le nostre società – europee, occidentali, apparentemente civilizzate ed evolute – siano sistemi finiti, chiusi, che bastano a se stessi. Microcosmi escludenti in cui qualsiasi proposta di miglioria – o appunto, integrazione – proveniente dall’esterno viene rifiutata a priori, se non addirittura percepita come una possibile minaccia all’ordine stabilito.
Di conseguenza, integrare assume un’accezione diversa. Nel dibattito pubblico attuale il concetto di integrazione è ormai divenuto sinonimo di assimilazione, termine che nelle scienze sociali descrive una rinuncia totale di usi e costumi originari a favore di una totale adozione di quelli propri del luogo in cui ci si stabilisce.
In altre parole: queste sono le regole, non c’è spazio per la negoziazione, se vuoi essere ammesso nel corpo sociale devi adeguarti senza mettere in discussione nulla. Un approccio etnocentrico figlio di colonialismi vecchi e nuovi, che nega la realtà dei fatti: le migrazioni rappresentano un fenomeno globale che interagisce attivamente con le società di approdo, modificandole dall’interno. E opporsi a questa inevitabile interazione – che implica un continuo processo di scambio e ridefinizione – è controproducente.
Infatti secondo i sociologi Stephen Castles e Mark Miller, autori del libro “L’era delle migrazioni. Popoli in movimento nel mondo contemporaneo“, il modello assimilazionista non è adatto a far fronte al modo in cui le nostre società sono cambiate, cambiano e continueranno a cambiare. Insistere sull’adesione in toto alla cultura predominante come condizione necessaria per l’accesso distorce la percezione delle differenze culturali, che da possibili e preziose spinte verso l’innovazione diventano elementi di frizione, se non addirittura di aperto scontro. E gli esiti finali sono la nascita e l’internalizzazione di quei meccanismi che purtroppo conosciamo bene: esclusione, discriminazione, razzismo.
Esiste un antidoto a tutto questo? Sembrerebbe di sì, ed è la pratica quotidiana su piccola scala.
Siamo a Roma, nel quadrante Nord-Ovest della città, quartiere Valle Aurelia. In una via non molto distante dalla fermata della metropolitana ci sono due insegne, l’una accanto all’altra: El Pueblo e Gustamundo. El Pueblo apre i battenti nel 1993 su iniziativa di Pasquale Compagnone, che dopo un viaggio zaino in spalla attraverso il Messico zapatista si innamora di quelle terre e decide di portarne con sé un pezzetto attraverso la cucina.
Poi, nel 2017, l’intuizione di un nuovo progetto da affiancare al ristorante messicano. “L’idea di collaborare con i centri di accoglienza e verificare se ci fossero delle persone provenienti da esperienze di cucina era stata pensata per creare dei momenti di aggregazione e di socializzazione fra i migranti e i clienti del ristorante”, racconta Pasquale. “Lo scopo era quello di fare delle cene tutti insieme e attraverso la cucina avere qualche serata di incontro conviviale”.
Nasce così Gustamundo. Pasquale si mette in contatto con i centri di accoglienza presenti sul territorio cittadino, avviando collaborazioni con la Comunità di Sant’Egidio, la Caritas, la Croce Rossa Italiana, il Joel Nafuma Refugee Center e molte altre realtà impegnate nel lavoro con rifugiati e richiedenti asilo. Inizialmente il progetto consiste nell’individuare persone già esperte in cucina, che abbiano voglia di cimentarsi nell’organizzazione di una serata in cui presentare i piatti delle proprie terre di origine.
“Il primo anno facevamo una media di 2-3 cene a settimana, si parlava con i migranti e si raccontavano un po’ le loro storie”, continua Pasquale. “Poi lentamente è venuta fuori l’esigenza di strutturarlo un po’ di più perché erano tutte collaborazioni una tantum, legate solamente alla prospettiva di queste cene, ed è giustamente subentrata da parte loro la richiesta di avere i permessi di soggiorno per restare in Italia. È così che abbiamo iniziato a pensare ad un vero e proprio ristorante multietnico dove poter fare contratti di lavoro e dare stabilità ai collaboratori”.
Accanto al ristorante El Pueblo si libera una piccola saletta: è l’occasione perfetta per fare il salto e dare una sede fisica a Gustamundo. Deciso a gettare fondamenta stabili che permettano al progetto di perdurare nel tempo, Pasquale comincia a fare una lenta e accurata selezione. E i risultati arrivano.
“Il gruppo si è lentamente costituito attorno a una quindicina di persone, tutti richiedenti asilo, rifugiati, o comunque di origine straniera. Ad oggi siamo riusciti a costruire un gruppo che funziona, ognuno con le proprie competenze e con i propri compiti, ed è un gruppo che riesce a lavorare bene insieme. Il ristorante adesso funziona tutti i giorni e tutte le sere.”
L’unicità del progetto risiede nella natura multiculturale dello staff e nell’amplissima scelta che il menu propone: ogni collaboratore, infatti, contribuisce con pietanze tipiche del proprio Paese. Ed effettivamente dare uno sguardo al menu di Gustamundo è un po’ come fare un viaggio intorno al mondo, in cui la cucina diventa un modo per veicolare conoscenza reciproca e nuove prospettive.
“All’inizio c’era la curiosità per un progetto nuovo, inedito per la sua tipologia, non è comune trovare un ristorante dove puoi andare a mangiare 15 cucine diverse. Poi si sono creati dei bei momenti, perché si mangiava tutti insieme. Sai, si parla spesso in maniera negativa dei migranti, poche cose positive. Per me la cucina è sempre stata una cosa positiva, in grado di stimolare la curiosità. Quindi all’inizio la gente si è avvicinata per l’idea nuova, ma poi constatando la qualità e soprattutto il tipo di progetto, quanto impegno e serietà ci fossero dietro, ha risposto molto bene.
Ad oggi se c’è da fare qualche raccolta fondi o altro la gente partecipa molto attivamente. Questo perché constatano giorno per giorno la presenza dei collaboratori e la loro crescita professionale. Inoltre, i risultati fanno crescere l’autostima di chi lavora con noi, la timidezza iniziale diminuisce, si sentono più accettati, più forti, e questo facilita il processo di incontro e conoscenza – anche quando ci sono delle storie di vita e di migrazione dolorose alle spalle.”
Gustamundo è quindi un luogo in cui si recupera il significato autentico della parola integrazione. Qui, attraverso la cucina, ognuno offre un pezzetto di sé, del proprio vissuto, della propria cultura. Si crea così quella possibilità di scambio e confronto che vede la differenza non come un ostacolo divisivo, bensì come portatrice di arricchimento ed evoluzione. Ed è proprio questo il primo e fondamentale passo verso rielaborazioni identitarie originali, inclusive, allargate.
L’esperienza di Dantoura ne è la prova. 28 anni, originario del Senegal, arriva in Italia nel 2014. La sua procedura di richiesta della protezione internazionale si conclude con l’ottenimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. A questo punto Dantoura comincia a pianificare la sua vita in Italia.
“Al centro di accoglienza facevamo solo corsi di formazione”, racconta. “Li ho fatti per tanto tempo, poi ad un certo punto ho detto agli operatori che volevo cercare lavoro. Mi hanno portato all’Accademia nazionale delle professioni alberghiere, lì ho fatto quasi sei mesi di formazione come cuoco.”
All’Anpa Dantoura apprende tecniche di cucina che comprendono nozioni legate alla tradizione italiana. Impara a fare la pasta all’uovo, per esempio. Al termine dei sei mesi accede a un tirocinio formativo, dopodiché ottiene un certificato.
“Sono andato in uno di quei posti dove ti aiutano a cercare lavoro e a scrivere il CV. Ho detto subito che cercavo qualcosa nella ristorazione, sia perché avevo il certificato sia perché era un lavoro che avevo già fatto nel mio Paese. Mi hanno detto che c’era qualcuno che cercava e mi hanno dato l’indirizzo di Gustamundo.”
E così nel 2019, col suo bagaglio di competenze acquisite in Senegal e in Italia, Dantoura comincia a collaborare con Pasquale. Dopo pochi mesi scoppia la pandemia; contestualmente si avvicina la scadenza del permesso di soggiorno, che non potrà essere rinnovato a causa delle modifiche introdotte dal decreto Salvini. Pasquale, sicuro di trovarsi di fronte ad una persona con grandi potenzialità, scommette su di lui: in pieno lockdown, firmano un contratto. Dantoura entra così a far parte dello staff di Gustamundo in pianta stabile, e può convertire il suo documento in un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
“A Gustamundo cucino i piatti tipici del Senegal”, spiega. “Il ceebu yapp e il ceebu ginar, per esempio. Il primo si fa con il riso e la carne, il secondo con riso, pesce e verdure. O il mafé, uno spezzatino di carne con verdure e burro di arachidi. Ma conosco anche la cucina di altri Paesi africani, quindi preparo anche piatti diversi. La gente è curiosa, spesso mi chiede come si cucinano i miei piatti e quali sono le loro origini.”
Dantoura è stato assunto in pieno lockdown perché, nonostante le difficoltà portate dall’emergenza sanitaria, la filosofia di fondo di Gustamundo rimane la stessa: il processo di scambio e inclusione passa attraverso il lavoro.
“Molti mi chiedono: ma perché non hai aperto una Onlus?“, continua Pasquale. “Le Onlus fanno di sicuro un grandissimo lavoro di sensibilizzazione, magari attraverso conferenze e incontri, ma è un lavoro a senso unico che mira ai cittadini italiani. In fin dei conti ai diretti interessati, ai migranti, torna indietro poco. Io credo che le risposte dell’inclusione debbano passare attraverso una stabilità personale che si esprime tramite il lavoro, la casa, la conoscenza del sistema locale.”
Quanto affermato dal fondatore di Gustamundo trova fondamento nei fatti. Secondo i dati raccolti dall’Istat e rielaborati da Openpolis, nel 2020 gli stranieri costituivano l’8,4% della popolazione residente in Italia, rappresentandone però allo stesso tempo più del 15% dei disoccupati. E infatti, analizzando singolarmente la categoria dei cittadini extra-comunitari, si scopre che il tasso di disoccupazione è di 8,6 punti percentuali superiore rispetto agli autoctoni.
Lo studio condotto da Simona Colucci, ricercatrice in Politiche Pubbliche per il Territorio all’Università IUAV di Venezia, ha rivelato che i rifugiati mostrano tassi di occupazione ulteriormente inferiori rispetto alle altre categorie di cittadini stranieri. Ciò ha a che fare con la natura instabile della loro posizione: un passato spesso traumatico, ostacoli burocratici, tempi d’attesa dilatati all’estremo per la definizione della richiesta di asilo, incertezza generale sulla loro sorte nel Paese ospitante.
E sempre secondo tale studio, il lavoro sarebbe centrale nel modificare in senso migliorativo la dinamica descritta: da una parte, permette di velocizzare il processo di comprensione e apprendimento degli strumenti necessari a muoversi nel nuovo ambiente; dall’altra, rafforza una rappresentazione positiva di sé, aumentando l’autostima e facilitando l’instaurazione di un legame con la comunità e il territorio.
Tutte queste nozioni sembrano essere molto chiare nella linea d’azione di Gustamundo. Tant’è che per velocizzare ulteriormente il processo viene fatto un lavoro a doppio binario.
“C’è la parte commerciale“, spiega Pasquale, “però c’è anche un occhio attento al supporto in quella che è la vita di tutti i giorni. Per questo abbiamo istituito un’associazione di promozione sociale che lavora in modo parallelo, occupandosi di formazione e di affiancamento nell’espletamento di pratiche legali e burocratiche di vario genere. L’obiettivo è la totale autonomia delle persone.”
Dilruba conferma le parole del suo datore di lavoro. Ha 33 anni, viene dall’Azerbaijan e lavora a Gustamundo dal 2020. “Questo progetto è una strada per l’autonomia, sia per me che per i miei figli”, dice. Arrivata in Italia nel 2018 con il figlio maggiore e ottenuto nel giro di pochi mesi lo status di rifugiata, avvia la procedura per ricongiungersi con le due figlie minori, che oggi hanno 9 e 11 anni.
“In passato ho lavorato nella ristorazione con mio padre, però non ho mai studiato. Avrei voluto fare un corso di cucina, ma mi dicevano sempre che prima avrei dovuto prendere almeno il diploma di terza media e poi studiare per altri cinque anni. Però io con tre figli non ce la faccio. Poi il direttore del mio centro mi ha detto che c’era un progetto per richiedenti asilo in cui davano la possibilità di cucinare i piatti del proprio Paese. E così mi ha fatta conoscere Pasquale. Abbiamo fatto una prova, piano piano ho dimostrato le mie capacità. E alla fine sono rimasta.
Io sono cuoca, ma a Gustamundo ho anche imparato a interagire coi clienti facendo la cameriera e la responsabile di sala. Questo lavoro mi piace tantissimo, è la mia passione. Abbiamo da poco firmato il contratto definitivo, e mi è stato anche finanziato un corso che si è concluso con l’iscrizione al REC [Registro Esercenti Commercio, ndr] della Camera di Commercio.”
L’iscrizione di Dilruba al REC è il primo passo verso un progetto ancora in fase embrionale: l’apertura di un Gustamundo 2, la cui gestione verrebbe affidata a lei. “Questo“, aggiunge Pasquale, “vorrebbe anche dire espandere lo staff e creare così nuove opportunità per più persone”.
Dilruba fa emergere anche un altro elemento significativo dell’esperienza Gustamundo. “È diverso rispetto a lavorare in altri ristoranti, è qualcosa che ha a che fare anche coi sentimenti“, dice. “Lavoro con altre quattro donne che come me hanno figli, e stare con loro è una bellissima cosa. Ognuno ha i suoi problemi, ma insieme riusciamo sempre a darci una mano. Da straniera, potermi confrontare con persone che stanno vivendo la mia stessa situazione e muovendo i primi passi in un ambiente nuovo è molto importante.”
Il progetto non è quindi solamente un punto di incontro fra cittadini stranieri e locali, ma anche un piccolo porto multiculturale in cui gli stessi collaboratori hanno la possibilità di familiarizzare fra loro, scoprendo che al di là di lingue e culture diverse spesso si nascondono esperienze e difficoltà comuni. E quindi si socializza, ci si supporta, si fa rete. Si trova il proprio posizionamento, più o meno comodo, intersecando vecchie e nuove identità in una sintesi del tutto originale.
Anche Anna menziona questo aspetto. Ha 27 anni, viene dall’Albania e vive in Italia da 4 anni. A Gustamundo ha portato la cucina rom, come la variante albanese della moussaka e le sarme, involtini di foglia di vite farciti con riso e carne.
“Vado sempre a lavorare volentieri, contenta. C’è comunicazione e collaborazione, il clima è sempre rilassato e pacifico, ridiamo e scherziamo continuamente. Il fatto che proveniamo da Paesi e culture diverse non è mai un ostacolo.”
Dato il successo che Gustamundo sta riscuotendo, Pasquale e i suoi collaboratori stanno valutando l’ipotesi di trasformare l’attività in un’impresa sociale o in una cooperativa, in modo da poter accedere a bandi e fondi dedicati. Questo permetterebbe di espandere ancora di più le iniziative e coinvolgere un numero sempre maggiore di persone, nonché di dare più visibilità ad un progetto che sta dimostrando concretamente che l’inclusione non deve necessariamente assumere le sembianze di un processo violento e coatto.
Piuttosto, è uno scambio in cui la scoperta di differenze e punti di contatto apporta benefici ad entrambe le parti. Perché, come conclude Anna, “alla fine siamo tutti umani, questo è quello che conta.”
Immagine in evidenza di Gustamundo
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