Prendi questa mano «zingara», il mio cuore è uno «zingaro» e va. Ho messo questo status in due profili Facebook che portano il mio nome e ho atteso di essere cacciato. Tutto tranquillo, nessuno mi ha segnalato e i profili sono on line. Questo prova che, per lo meno in linea di principio, non esiste nelle policy di Facebook nessun divieto di usare il termine «zingaro/a» che è tranquillamente pronunciabile anche oggigiorno, sia online sia nella vita concreta, esattamente come usava ai tempi della nonna di Matteo Salvini.
Non possiamo che concordare con questa osservazione di Gianluca Nicoletti, che leggiamo in «E Salvini strumentalizza la sospenzione da Facebook», pubblicato oggi da La Stampa. Tanta, infatti, la polvere sollevata dal segretario federale della Lega Nord quando il social network ha “deciso” di bloccare per un giorno il suo profilo personale poiché alcuni suoi post erano stati segnalati.
Matteo Salvini ha subito reagito:
Facebook ha bloccato il mio profilo personale per 24 ore per la presenza delle parole “zin*ari” e “zin*are” in due… Posted by Matteo Salvini on Giovedì 9 aprile 2015
Facebook ha bloccato il mio profilo personale per 24 ore per la presenza delle parole “zin*ari” e “zin*are” in due…
Posted by Matteo Salvini on Giovedì 9 aprile 2015
Intervistato da Radio Padania Salvini ha ribadito di essere stato sospeso «per aver usato il termine “zingari”, che usava mia nonna».
Da chi grida alla censura, tuttavia, sembra non siano stati considerati alcuni fondamentali elementi.
Quella della sospensione degli account per 24 ore è una pratica che rappresenta la prassi nel caso di segnalazioni e che prescinde da come il social network valuterà poi gli interventi contestati, scegliendo di rimuoverli o meno.
Che i post siano stati segnalati, inoltre, per il semplice uso del termine “zingari” è piuttosto difficile da credere; come sempre non è la parola a essere oggetto di critiche, ma l’uso che se ne fa. Nella fattispecie, oltretutto, si trattava di interventi in cui Salvini riprendeva le proprie affermazioni sulla necessità di “radere al suolo” i campi nomadi; interventi che hanno generato molti commenti contenenti chiare forme di hate speech. Sottolinea Nicoletti su La Stampa: «Sul fatto che sia stato o meno degno di segnalazione si può disquisire a volontà; è probabile che chi lo abbia segnalato abbia considerato, più della frase di Salvini, il fatto che il post abbia scatenato un contesto di reazioni in cui la discriminazione e il razzismo entrano nell’area del reato, quindi lecitamente censurabili se il titolare del profilo non provvede a rimuovere i commenti dei suoi “amici”».
È proprio questo il criterio che ha applicato Facebook nel giudicare i post pubblicati sul profilo personale di Matteo Salvini, giungendo a rimuoverne uno. «Uno dei contenuti è stato rimosso correttamente poiché in violazione delle nostre policy riguardanti l’incitamento all’odio», ha comunicato il social network, scusandosi per aver rimosso un altro contenuto erroneamente.
Che il ricorso al termine “zingari” non c’entri nulla con le azioni intraprese da Facebook è chiaro e le dichiarazioni della stessa azienda impediscono di poter affermare il contrario. Per questo appare fin troppo superficiale e semplicistica per essere credibile la posizione di quelle testate che oggi accusano la piattaforma social di censura: «”Zingaro”, parola razzista. Salvini oscurato» (Il Tempo), «Vietato dire “zingari”. La censura buonista dei furbetti di Facebook» (Il Giornale), «Salvini cacciato dal web perché scrive “zingari”. “Pazzesco, è stalinismo”» (Il Giornale), «Scrive zingaro: Facebook caccia Salvini (Libero)».
A coloro che ancora hanno dubbi andrebbe ricordato, allora, che l’hate speech, nonostante le lacune legislative in materia, è riconosciuto internazionalmente come un crimine e che Facebook non ha fatto altro che prenderne atto adeguando la sua politica interna. Il social network chiarisce pubblicamente cosa è considerato “discorso d’odio”: «Sono vietati i contenuti che si configurano come attacchi, sia reali che percepiti, indirizzati a una persona o un gruppo di persone in base a razza, etnia, nazionalità di origine, religione, sesso, orientamento sessuale, disabilità o malattia. Accettiamo, tuttavia, chiari messaggi umoristici o satirici che potrebbero essere altrimenti considerati possibili minacce o attacchi. Tra questi includiamo contenuti che potrebbero essere ritenuti di cattivo gusto da alcune persone (ad es. barzellette, spettacoli di cabaret, testi di canzoni famose ecc.)». Per leggere queste indicazioni è sufficiente visitare la pagina in cui sono illustrati gli standard della comunità, standard che si sottoscrivono nel momento in cui si decide di aprire un account.
La strumentalizzazione che è stata fatta dell’episodio conduce fuori strada l’opinione pubblica rispetto al vero problema degli interventi segnalati e, in alcuni casi, arriva persino a favorire la produzione di nuovi contenuti d’incitamento all’odio. Ne è un esempio il post pubblicato poco sopra, in cui Salvini lamenta di aver visto sospeso il suo profilo e rilancia con la canzone «Zingara». Ci uniamo, in proposito, alla conclusione dell’articolo di Gianluca Nicoletti:
Il gioco potrebbe sembrare anche divertente, se un certo Aaro non avesse poi ripubblicato un ritratto di Hitler con la frase «Non siete altro che pellet». Segue un certo Davide con la foto di un campo con delle roulotte incendiate e la scritta “50 sfumature di Rom”. Appaiono vari ritratti duceschi, di cui uno chiosato «Je suis la solution». Un signore che mette il colpo in canna alla pistola «sono stufo di questa merd». Ancora Hitler sorridente: «Vieni caro che ti porto in un bel posto…». Nulla di particolarmente originale, è in fondo la classica iconografia che da settanta anni alimenta le nostalgie postfasciste. È paccottiglia che si vende nei mercatini delle fiere di paese, però con il buon gusto di riservargli spazi defilati, per soli amatori. Altra cosa è che il segretario della Lega ne condivida la presenza nello spazio social sormontato dalla sua fotografia.
Il gioco potrebbe sembrare anche divertente, se un certo Aaro non avesse poi ripubblicato un ritratto di Hitler con la frase «Non siete altro che pellet». Segue un certo Davide con la foto di un campo con delle roulotte incendiate e la scritta “50 sfumature di Rom”. Appaiono vari ritratti duceschi, di cui uno chiosato «Je suis la solution». Un signore che mette il colpo in canna alla pistola «sono stufo di questa merd». Ancora Hitler sorridente: «Vieni caro che ti porto in un bel posto…».
Nulla di particolarmente originale, è in fondo la classica iconografia che da settanta anni alimenta le nostalgie postfasciste. È paccottiglia che si vende nei mercatini delle fiere di paese, però con il buon gusto di riservargli spazi defilati, per soli amatori. Altra cosa è che il segretario della Lega ne condivida la presenza nello spazio social sormontato dalla sua fotografia.
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