Di hate speech si inizia a sentir parlare sempre più spesso, anche in Italia. La maggiore attenzione è data ai social media: su internet i discorsi d’odio proliferano e si comincia a riflettere su come le testate giornalistiche dovrebbero gestire i commenti pubblicati sui siti web e sugli account Twitter e Facebook di loro appartenenza.
A volte l’hate speech, però, finisce all’interno degli stessi articoli. Con una politica che sempre più spesso – a livello locale, nazionale, internazionale – fa leva su sentimenti xenofobi e razzisti o sulla paura degli elettori con lo scopo di accaparrare più voti, trovare nei virgolettati palesi casi di hate speech è molto frequente.
In che modo, dunque, la redazione e il giornalista dovrebbero porsi rispetto a questa possibilità?
L’Ethical Journalist Network ha realizzato un test rivolto ai giornalisti per offrire loro uno strumento che possa aiutarli in questo tipo di valutazione. Di seguito la traduzione dell’articolo originale.
La redazione moderna è un luogo ricco di sfide. Nel competitivo mondo dei media le informazioni volano in modo pericolosamente veloce: c’è poco tempo per verificare i fatti e le immagini o per avvalorare le informazioni e non c’è spazio per discussioni sull’etica giornalistica. Anche quando il tempo è nemico, però, reporter e redattori devono fermarsi e prendersi un momento per giudicare l’impatto potenziale dei contenuti offensivi e provocatori.
I pericoli dell’hate speech nel giornalismo sono ben noti e in molte parti del mondo hanno condotto a tragiche conseguenze. In Africa, per esempio, alcuni giornalisti sono diventati così promotori di propaganda e conflitto. Molti hanno giocato un ruolo deplorabile nei conflitti regionali e in alcuni casi estremi – in Ruanda e Kenya, per esempio – hanno contribuito ad azioni di inenarrabile violenza.
Ogni qual volta i media sono manipolati da politici o da altri individui che si pongono in difesa del paese, della cultura, della religione e della razza, diventano potenzialmente nocivi. Anche i migliori giornalisti possono, inavvertitamente, provocare danni quando raccontano storie controverse e decontestualizzate. La mancata applicazione di norme di condotta in redazione e la scarsa comprensione dell’impatto potenziale di parole e immagini può portare alla realizzazione di lavori giornalistici che incoraggiano l’odio e la violenza.
Nonostante la maggior parte dei giornalisti sia consapevole del proprio dovere di dire la verità e di riportare cosa è stato detto e da chi, quando si tratta di bilanciare questa responsabilità con un altro principio cardine del giornalismo, quello della minimizzazione del danno, spesso si fallisce.
In che modo un giornalista giudica cosa è accettabile e cosa non lo è? Come può integrare nella routine lavorativa la valutazione di ciò che costituisce una “minaccia”, dal punto di vista dell’hate speech? Valutare cosa, esattamente, configuri l’hate speech è un compito difficile. Non esiste una definizione internazionalmente accettata e i livelli di tolleranza variano drammaticamente da paese a paese.
Per trovare un percorso sicuro in questo campo minato, i giornalisti devono tenere in considerazione il contesto complessivo nel quale le persone si esprimono. Non devono focalizzarsi esclusivamente su ciò che è stato detto, ma anche su quale fosse l’intenzione. Non è solo questione di legislazione o di comportamento socialmente accettabile; riconoscere un hate speech significa anche saper valutare se il discorso ha l’obiettivo di nuocere ad altri, in particolar modo quando il gruppo contro cui le parole sono indirizzate rischiano di essere vittime di violenza.
Questo test in cinque punti è stato sviluppato da consulenti dell’Ethical Journalism Network ed è basato su standard internazionali. Porta in evidenza alcune questioni relative alla raccolta, alla preparazione e alla diffusione di informazioni e notizie che potranno aiutare giornalisti e redattori a collocare ciò che viene detto – e chi lo dice – in un contesto professionale deontologicamente forte.
I giornalisti sono spesso accusati di incitamento all’odio – e in effetti alcuni editorialisti indulgono volentieri in discorsi provocatori o offensivi – ma nella maggior parte dei casi sono colpevoli solamente di aver riportato le dichiarazioni offensive di altri.
I media cadono regolarmente nella trappola di esperti di comunicazione, politici senza scrupoli e leader di comunità: questi capaci comunicatori, che provocano discordia per supportare i propri pregiudizi e opinioni, contano sui media per dare copertura alle loro dichiarazioni sensazionaliste, non importa quanto esse siano incendiarie. Giornalisti e redattori devono capire che il solo fatto che qualcuno affermi qualcosa di oltraggioso non rappresenta una notizia; devono esaminare il contesto in cui ciò è stato detto, così come la posizione e la reputazione di chi lo ha detto. Un politico agitatore, abile nella manipolazione del pubblico, non dovrebbe ottenere copertura mediatica perché questa genererebbe un clima negativo e considerazioni controverse.
Quando, invece, persone che non hanno rilievo pubblico istigano all’odio, sarebbe saggio ignorarle del tutto. Un esempio è quello di Terry Jones, il pastore brucia-Corano della Florida, sconosciuto e con poca influenza anche nel suo rurale e isolato ambiente, divenuto poi da un giorno all’altro un caso mediatico in tutto il mondo. Riflettendoci, i giornalisti avrebbero potuto decidere di non fargli pubblicità solo per le sue dichiarazioni provocatorie.
Anche quando si tratta di figure pubbliche i media devono assicurarsi di non attrarre attenzione eccessiva su politici e altre persone d’influenza il cui unico obiettivo è creare un clima negativo nei confronti di quelle persone i cui diritti dovrebbero essere rispettati, specialmente quando sono rappresentate da coloro che appartengono ai gruppi più vulnerabili e marginalizzati. In particolare i giornalisti devono esaminare chi parla, analizzare le parole, i fatti, le affermazioni e giudicare con attenzione le intenzioni e l’impatto degli interventi. Prendere posizione contraria a quella di chi parla non è compito del giornalista, ma le dichiarazioni e i fatti devono essere verificati, a prescindere da chi sia lo speaker.
La libertà di espressione è un diritto di tutti, inclusi politici e altri personaggi di pubblico rilievo; è compito del giornalista assicurarsi che ognuno dica la sua, ma questo non significa dare licenza di mentire, di diffondere voci malevole e di incoraggiare ostilità e violenza contro qualcuno. Quando una persona parla a sproposito, il buon giornalismo dovrebbe essere lì per metter le cose in chiaro per tutti.
Durante una conversazione privata in un luogo pubblico possono emergere le più odiose opinioni, ma essa causa relativamente pochi danni e non dovrebbe, dunque, essere necessariamente sottoposta a questo test. Le cose cambiano quando il discorso è disseminato tra i mainstream media o su internet.
I giornalisti devono tenere in considerazione anche la frequenza e l’estensione con cui è diffuso il messaggio: si tratta di un episodio isolato, di una veloce “esplosione”? Oppure si tratta di qualcosa che è ripetuto nel tempo, che avviene in modo continuativo e deliberato? Anche interrogarsi sulla rilevanza e sull’intenzione può essere d’aiuto per capire se il discorso fa parte di un preciso schema comportamentale o se è l’incidente di una volta. Un indicatore utile per individuare una strategia di istigazione all’odio, che sia essa basata su etnia, razza, religione o su altri fattori di discriminazione, è la ripetitività.
Normalmente giornalisti e redattori preparati sono capaci di identificare in fretta se il discorso ha l’intenzione di attaccare i diritti umani di singoli individui o gruppi. Dovrebbero anche saper riconoscere se il discorso costituisce un reato o se è soggetto a sanzioni. Alcune volte è necessario infrangere le regole, ma i giornalisti devono sempre essere consapevoli dei rischi che corrono decidendo di pubblicare un possibile hate speech.
Giornalisti e redattori hanno una responsabilità speciale nel collocare il discorso all’interno del giusto contesto, svelando e spiegando quali sono gli obiettivi di colui che parla. Non è nostra intenzione sminuire coloro con i quali siamo in disaccordo, ma l’articolo dovrebbe aiutare chi legge – o ascolta – in una migliore comprensione del contesto nel quale il discorso è pronunciato.
Le domande chiave sono: quali sono i benefici per chi parla e quali gli interessi che rappresenta? Chi sono le vittime dell’hate speech e qual è l’impatto su di loro, sia come individui che come comunità?
I giornalisti devono saper valutare se il discorso è provocatorio e giudicarne forma e stile. C’è un’abissale differenza tra il racconto fatto da qualcuno in un bar o pub, con un gruppo ristretto di persone, e il discorso pronunciato in un luogo pubblico, di fronte a una platea eccitabile.
Molte persone hanno opinioni e idee offensive. Non è un crimine, come non lo è renderle pubbliche (c’è chi lo fa costantemente sui social network), ma le parole e le immagini che usano per esprimerle possono avere effetti devastanti se incitano alla violenza.
I giornalisti devono chiedersi: è un discorso “pericoloso”? Potrebbe essere perseguito dalla legge? Incita alla violenza o all’odio contro qualcuno? Un discorso che può far passare all’oratore dei guai con la giustizia potrebbe essere notiziabile, ma i giornalisti, anche in questo caso, devono essere prudenti, poiché potrebbero incontrare problemi per averlo citato.
Discorsi “pericolosi” o controversi spuntano soprattutto durante i periodi difficili, in cui le tensioni sociali sono forti e i politici sono in guerra tra loro. I giornalisti devono tener conto di quale sia l’atmosfera nel momento in cui il discorso viene pronunciato. Una campagna elettorale in cui gruppi politici si sfidano e sgomitano per ottenere l’attenzione dell’opinione pubblica, per esempio, rappresenta terreno fertile per considerazioni che istigano all’odio.
I giornalisti devono giudicare se le affermazioni sono giuste, basate su fatti e se sono ragionevoli nelle circostanze in cui sono pronunciate. Quando abbiamo dubbi sul citare direttamente un discorso d’odio, può essere d’aiuto parafrasare le dichiarazioni offensive senza ripetere i termini insultanti.
Ma, soprattutto, i giornalisti devono svolgere il proprio lavoro con attenzione. Dovrebbero riconoscere il contesto, inclusi i casi in cui vi è una strategia di discriminazione contro gruppi di persone. Vi sono gruppi, infatti, che sono target di campagne mirate.
Un dibattito accademico sulla migrazione che presenta risultati controversi può essere relativamente innocuo o neutrale se tenuto nel contesto della ricerca; lo stesso dibattito può, però, diventare pericoloso se avviene in determinate condizioni, quando le persone sono insicure e ansiose per la propria sicurezza e per il proprio futuro.
Le domande che i giornalisti dovrebbero porsi sono: qual è l’impatto del discorso sulle persone che colpisce? Quali per loro le condizioni di sicurezza? Il discorso intende risolvere o amplificare i problemi?
1. Quando si lavora su storie in cui l’hate speech politico ricorre è fondamentale non fare del sensazionalismo. Il giornalista deontologicamente preparato si chiederà:
2. Durante la raccolta e l’elaborazione di materiale controverso i giornalisti devono evitare la fretta nella pubblicazione. È d’aiuto fermarsi, anche solo per pochi momenti, per riflettere sui contenuti:
3. Un ultimo sguardo e momento di riflessione è sempre utile prima di premere invio:
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