di Adil Mauro su Valigia Blu
“Nella tua città c’è un lager”. È la denuncia degli attivisti che si battono da anni per la chiusura dei CPR (Centri di Permanenza per i Rimpatri), veri e propri buchi neri nei quali finiscono, e a volte perdono anche la vita, i cittadini stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno.
Con una capienza complessiva di 1.100 posti sono dieci i centri attualmente operativi a Milano, Torino, Gradisca d’Isonzo, Roma-Ponte Galeria, Palazzo San Gervasio, Macomer, Brindisi-Restinco, Bari-Palese, Trapani-Milo e Caltanissetta-Pian del Lago.
Si tratta di strutture che in oltre vent’anni hanno prodotto una lunga scia di disperazione, violenze e morti. Istituiti nel 1998 dal governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi con la legge sull’immigrazione Turco-Napolitano, i centri furono inizialmente chiamati CPTA (Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza), poi CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione) e infine rinominati CPR con la legge Minniti-Orlando del 2017.
All’inizio le persone potevano essere trattenute per un periodo massimo di 30 giorni, diventati 60 con le modifiche apportate dalla legge Bossi-Fini del 2002. Nell’estate del 2011 il quarto e ultimo governo Berlusconi inasprì ulteriormente le misure restrittive, portando il tempo limite di trattenimento nei CIE a 18 mesi. Dopo una riduzione a 3 mesi stabilita dalla legge europea 2013-bis, il periodo è stato poi nuovamente esteso fino a 180 giorni, con l’entrata in vigore del decreto sicurezza nel 2018. Il decreto 130/2020 voluto dall’attuale ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha riportato il periodo di detenzione a 90 giorni, con la possibilità di estenderlo fino a un massimo di 120.
Nel 2011 una circolare dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni vietò alla stampa l’accesso ai centri per immigrati “al fine di non intralciare le attività loro rivolte”. Un provvedimento superato solo formalmente con la direttiva dello stesso anno firmata dalla ministra Anna Maria Cancellieri. La campagna LasciateCIEntrare ricorda che “ancora oggi la sospensione del divieto non rappresenta de facto la garanzia della libertà di informazione. Capire e raccontare cosa accade in questi luoghi è estremamente difficile a causa della discrezionalità con la quale le richieste di accesso vengono gestite e trattate”.
Gli ultimi casi collegati a queste strutture riguardano Wissem Ben Abdel Latif, 26enne tunisino trattenuto nel centro di Ponte Galeria e morto all’ospedale San Camillo di Roma dopo essere stato sottoposto a contenzione meccanica, e il connazionale 44enne Anani Ezzeddine suicidatosi nel CPR di Gradisca d’Isonzo.
Restano ancora da chiarire le cause che hanno portato alla morte di Abdel Latif. La Procura di Roma ha aperto un’indagine contro ignoti per omicidio colposo. I familiari ancora si chiedono cosa sia successo. Sapevano che a fine settembre era arrivato in Italia, era stato all’hotspot di Lampedusa “dove aveva dormito a terra circondato da una rete perché il centro era stracolmo” e poi trattenuto su una nave per espletare la quarantena senza aver accesso alla richiesta di protezione internazionale. Tutto questo non aveva fiaccato lo spirito di Abdel Latif, come riferisce la sorella Rania.
Una volta trasferito al CPR le cose però cambiano. Abel Latif non capisce perché era finito in cella senza aver commesso alcun reato, ricostruisce Annalisa Camilli su L’Essenziale. A ottobre gira un video all’interno della struttura in cui dice di essere pronto a proseguire lo sciopero della fame per impedire il rimpatrio. Nei giorni successivi, Abdel Latif sembra manifestare una forma di disagio psichico durante i colloqui con la psicologa del CPR al punto da richiedere una visita specialistica da parte dello psichiatra, che gli prescrive una terapia farmacologica. Dopo una nuova visita, lo psichiatra dispone il ricovero in un ambiente ospedaliero.
Come ricostruisce il Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio, Stefano Anastasia, in entrambi gli ospedali Abdel Latif viene trattenuto in stato di contenzione (al San Camillo per 63 ore): “Sappiamo che questa degenza, che sembra essere maturata come una scelta volontaria di assistenza medica, si è protratta per cinque giorni in contenzione. Questa è una cosa che va verificata. La stretta necessità di questa contenzione, che non è un atto medico ma di cautela per la sicurezza degli ambienti e della persona, va monitorata e limitata all’indispensabile”.
Secondo quanto riportato dai media, alcune persone trattenute nel CPR hanno parlato anche di possibili maltrattamenti ma spiega sempre Anastasia, “nessuno di noi ha ricevuto denunce di maltrattamenti su Ben Wassem Abdel Latif, prima che dal CPR di Ponte Galeria arrivasse volontariamente ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura dell’ospedale San Camillo”. Stando alla documentazione attualmente a disposizione, prosegue il Garante, “questi maltrattamenti non sono emersi nell’accesso al Pronto soccorso del Grassi dove, se ci fossero stati, sarebbero stati registrati quanto meno per medicina difensiva. Dall’autopsia vedremo se ci sono altre cose che ad oggi non sono emerse”.
Una morte evitabile secondo quanto dichiarato dall’avvocato Francesco Romeo. “Il 24 novembre, mentre Abdel Latif era ricoverato e legato in stato di contenzione presso l’ospedale Grassi di Ostia, il giudice di pace di Siracusa, su ricorso del legale del giovane tunisino, sospendeva l’esecutività del decreto di respingimento e del provvedimento di trattenimento presso il CPR di Ponte Galeria”.
Uno dei primi a dare la notizia della morte di Abdel Latif è stato Majdi Karbai, deputato della sinistra tunisina eletto in Italia nella circoscrizione esteri. A Valigia Blu racconta di «segnalazioni e testimonianze di connazionali che si trovano dentro i CPR o che sono già stati rimpatriati. Tutti descrivono un sistema di stigmatizzazione dove è impossibile ricevere informazioni sulla propria situazione. Ormai la Tunisia è considerato a torto un paese sicuro e quindi non ti viene data nessuna possibilità di accedere alla domanda di asilo o di protezione internazionale».
La Tunisia rientra, infatti, tra i 13 Stati presenti nell’elenco di paesi nei quali si presume sia garantito il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, stilato dall’Italia il 7 ottobre 2019 in attuazione della direttiva europea numero 32 del 2013. “Una classificazione che ha prodotto effetti eclatanti”, spiega Martina Costa membro di Avocats Sans Frontières. “Non solo i tunisini sono pre-valutati ma addirittura non viene fatta un’informativa legale adeguata. Vengono etichettati come coloro che ‘abusano’ del diritto di chiedere l’asilo. La Tunisia, però, oggi non è un paese sicuro”. Questo sistema, tra l’altro, non ferma i flussi. In Tunisia le persone che vengono respinte sono pronte per ripartire dopo essere state trattenute poche ore nei commissariati di polizia.
“Abdel Latif era solo un numero dentro le carte degli accordi tra Italia e Tunisia e dentro i cassetti ammuffiti e maleodoranti dell’Unione Europea”, denuncia LasciateCIEntrare.
Per Karbai «non si può parlare di accordi, perché gli accordi vengono discussi anche in Parlamento». In effetti il primo “accordo” bilaterale Italia-Tunisia sottoscritto il 6 agosto 1998 dal ministro degli Esteri Lamberto Dini e dall’ambasciatore tunisino a Roma fu una nota verbale in cui il governo nordafricano si impegnava a mettere in atto misure efficaci di controllo delle coste in cambio di quote di ingresso annuali per cittadini tunisini.
Negli anni successivi ci sono state altre intese, alcune mai rese pubbliche come quella del 2009, fino all’ultimo accordo “fantasma” del 2020 smentito dall’Italia e confermato dal ministero dell’interno tunisino: 11 milioni di euro per un radar, la manutenzione delle motovedette, programmi di formazione per le guardie di frontiera e un sistema informativo di controllo del mare.
Un altro aspetto problematico è l’accesso ai centri, segnala Karbai. «L’anno scorso ho provato a contattare la prefettura di Milano per entrare e mi è stato detto di no. Sabato 4 dicembre quando sono andato a Roma per ascoltare i ragazzi che erano lì insieme a Wissem non mi hanno fatto entrare».
Ai Centri possono accedere, in qualunque momento, senza alcuna autorizzazione e previa tempestiva segnalazione alla Prefettura, membri del governo, parlamentari ed europarlamentari che hanno la facoltà di farsi accompagnare da un proprio assistente. Altre figure con libertà di accesso sono il delegato in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR) o suoi rappresentanti autorizzati e i Garanti dei diritti dei detenuti. Associazioni, giornalisti e personale della rappresentanza diplomatica o consolare del Paese d’origine del recluso possono entrare solo se autorizzati dalla prefettura.
Nel rapporto sulle visite effettuate nei CPR dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale una delle raccomandazioni è che “venga aumentata la permeabilità e l’osmosi dei centri rispetto ai territori, con la partecipazione anche di espressioni della società civile, per la realizzazione di attività anche di tipo formativo rivolte alle persone trattenute, per un significativo impiego del tempo trascorso in privazione della libertà personale”.
Tra gli aspetti critici di carattere gestionale il Garante evidenzia infatti che “l’impermeabilità del CPR verso l’esterno, a lungo andare, gioca un ruolo negativo rispetto alla vita stessa delle strutture e di chi le abita. L’auspicabile apertura a osservatori esterni non istituzionali – università, media e associazioni – sebbene percepita come ‘fonte di pericolo’, aumenterebbe il grado di visibilità esterna delle strutture e della loro gestione, abbassando al contempo la divaricazione tra posizioni spesso di tipo ideologico e antagonista”.
Ancora più grave è la presenza di minorenni nei CPR. «Mai come nell’ultimo anno e mezzo, dopo l’accordo con la Tunisia, abbiamo visto un tale transito di minori stranieri non accompagnati nei centri, non solo a Ponte Galeria ma a Milano, Torino, Bari e Brindisi. In alcuni casi non dichiaravano la minore età perché non veniva loro chiesta. Chiaramente quando hanno avuto modo di comunicarla ci sono state tutte le verifiche di rito, ma di fatto hanno trascorso giorni, o solo qualche ora, in un luogo illegittimo», dice Yasmine Accardo di LasciateCIEntrare.
Al drammatico conteggio dei decessi legati a questi luoghi di detenzione vanno aggiunti i numerosi episodi di atti di autolesionismo compiuti dalle persone recluse: solo a Torino nei mesi di ottobre e novembre 115 casi, definiti dal segretario provinciale del sindacato di polizia Siulp Eugenio Bravo come “simulazioni di tentati suicidi”.
Dalla lettura del rapporto della Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (CILD) emerge in maniera evidente quanto queste realtà possano essere redditizie. Un modello di business che ricorda il mercato delle prigioni private negli Stati Uniti. Secondo le stime di CILD, “nell’ultimo triennio sono stati spesi 44 milioni di euro per sostenere una gestione privata della detenzione amministrativa che (…) non garantisce i diritti fondamentali dei trattenuti. Una media giornaliera di spesa pari a 40.150 euro per detenere mediamente meno di 400 persone al giorno (dalle 192 persone presenti al 22 maggio 2020 alle 455 presenti al 20 novembre 2020) per poi constatare che soltanto nel 50% dei casi si realizza lo scopo della detenzione senza reato. La detenzione amministrativa è, infatti, una ‘filiera molto remunerativa‘ e la gestione privatizzata dei Centri (finanche per i servizi relativi alla salute) è uno dei nodi più controversi”.
È necessario tenere sempre a mente che questi luoghi rappresentano un tassello in un più ampio dispositivo di controllo e criminalizzazione delle persone migranti che va dai lager libici finanziati dall’Italia ai campi profughi lungo la rotta balcanica (dalla Grecia alla Bosnia e alla Croazia), passando per hotspot, “navi quarantena” e respingimenti illegittimi.
Strutture che, secondo Davide Cadeddu, autore di “Cie e complicità delle associazioni umanitarie” (Sensibili alle foglie, 2013), non sono riformabili per la loro stessa natura:
“Ciò che rende il CIE tale è la sua natura biopolitica. In questo dispositivo il potere si esercita sulla persona trattenuta non in quanto autore di un reato, ma in quanto essere vivente, vita biologica, nuda vita. Per cui, anche se in questi campi di internamento fossero garantiti standard decenti rispetto alla tutela dell’incolumità personale, all’igiene del luogo, alla qualità del cibo, all’assistenza sociale (attraverso la presenza di interpreti, psicologi, avvocati, mediatori linguistici) o alla realizzazione di attività di socializzazione, la natura di questi luoghi comunque non cambierebbe, rimarrebbero quello che sono e continuerebbero ad assolvere sempre alla stessa identica funzione all’interno della società”.
Il CPR, come denuncia il rapporto “Delle pene senza delitti”, stilato dopo l’ispezione effettuata dal senatore Gregorio De Falco e dalla senatrice Simona Nocerino all’interno del centro di via Corelli a Milano, insieme agli attivisti e alle attiviste della rete Mai più lager – NO ai CPR, è “una struttura carceraria per persone innocenti, ma con ancora meno diritti di quelli garantiti ai reclusi del sistema penitenziario, dove per giunta si capita (è il verbo corretto) senza che venga celebrato alcun processo”.
Tra i diritti negati alle persone detenute ci sono quelli alla salute e alla comunicazione. Lo spiega a Valigia Blu l’avvocato Maurizio Veglio, coordinatore del libro nero sul CPR di Torino realizzato dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI): «Dentro il CPR di corso Brunelleschi non è presente l’ASL, ma personale stipendiato dall’ente gestore i cui introiti dipendono dal numero di presenze. Se il medico è colui che decide la compatibilità della persona evidentemente si trova in una posizione di potenziale conflitto di interessi. Dal gennaio del 2020 i trattenuti vengono privati del cellulare e possono utilizzare solo un telefono fisso che non è abilitato a ricevere dall’esterno. Le chiamate sono possibili solo con una tessera prepagata del valore di 5 euro che viene distribuita ogni due giorni, in alternativa alle sigarette. Quindi la scelta è tra fumare oppure poter utilizzare 5 euro di telefonate in uscita dal centro. Il numero degli apparecchi fissi è addirittura inferiore a quello previsto dal regolamento ministeriale del 2014 e di fatto non ci sono altri canali comunicativi».
L’impossibilità di comunicare con i parenti o con le persone care ha una ricaduta pesante sul benessere psicofisico di chi è costretto a vivere in una condizione di completo abbandono, con giornate identiche che si ripetono ciclicamente.
Un problema, quello della comunicazione, che riguarda anche il diritto di contattare figure istituzionali come segnala a Valigia Blu Stefano Anastasia, il Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio. «Chi è trattenuto ha la facoltà ora riconosciuta per legge di rivolgere reclami ai garanti, ma non può comunicare direttamente con loro. Il responsabile del centro ha messo un avviso dicendo che chi vuole parlare con il garante può fare richiesta e lui lo contatterà. Non metto in dubbio la sua buona fede, ma non è questo il modo con cui le persone trattenute devono entrare in contatto col garante».
Per questo motivo Anastasia ha chiesto alla prefettura di riattivare uno sportello del Garante presso Ponte Galeria. «Tanti anni fa questa attività esisteva sulla base di un protocollo sottoscritto dalla Regione, il Garante e la prefettura. Il protocollo è scaduto prima che arrivassi, ma negli ultimi anni tutti i solleciti alla prefettura non hanno prodotto alcun risultato. Nelle carceri del Lazio al più tardi ogni 15 giorni c’è una delegazione di ufficio che incontra i detenuti che vogliono parlare con il Garante per segnalare un problema. Perché questa cosa non si possa fare anche a Ponte Galeria credo sia totalmente incomprensibile».
Nel centro romano si trova una sezione femminile, al momento vuota. Durante il primo lockdown del marzo 2020, quando all’interno della struttura c’erano 40 donne, è stato impedito l’accesso ai gruppi di assistenza legale che aiutano le detenute – spesso vittime di tratta – a veder riconosciuti i loro diritti e non essere rimpatriate, un epilogo fin troppo frequente.
Veglio invece è entrato nel centro torinese per la prima volta nel 2003 e dopo tutti questi anni «il dato più rilevante è il fatto che non sia cambiato nulla. Indipendentemente dalle condizioni di vita, dalla durata massima del trattenimento e da altri fattori, il tasso di rimpatri delle persone recluse è sempre rimasto intorno al 50%. Senza contare la sofferenza giurisdizionale di un diritto che applica la sua sanzione più grave – la privazione della libertà personale – in assenza di un reato e della sua contestazione. Qui si tratta di una violazione di tipo amministrativo, oltretutto convalidata da un’autorità giudiziaria, la magistratura onoraria, che in nessun altro caso ha il potere di intervenire sulla libertà personale degli individui».
A livello europeo sono due le direttive che regolano il rimpatrio dei migranti irregolari: la 2008/15/CE che attribuisce agli stati membri il potere di detenere persone presenti irregolarmente sul loro territorio e la 2013/33/UE che riconosce ai richiedenti asilo la libertà di movimento sul territorio nazionale, ma consente anche la possibilità di detenerli per accertarne l’identità.
La regolamentazione è affidata alle singole nazioni ma, sottolinea Veglio, “una seria ridiscussione e comprensione delle storture e degli orrori collegati alle vicende di detenzione amministrativa al momento non è ancora in corso. Ci sono gesti di resistenza, ma è una battaglia tutta in salita perché purtroppo l’opinione pubblica sembra assuefatta e riuscire a ridestarla da questo sonno collettivo è un’impresa davvero impegnativa”.
LasciateCIEntrare, almeno all’inizio, ha potuto contare sul sostegno del mondo dell’informazione. «Fino al 2014 entravamo in delegazioni cospicue di 7-8 persone, producevamo rapporti, interrogazioni parlamentari, denunce di casi molto gravi», ricorda Accardo. “Adesso è diventato impossibile”.
I media ormai parlano dei CPR solo quando una persona perde la vita. Come accaduto in questi mesi con Moussa Balde a Torino e con la morte di Abdel Latif. E in precedenza con altre vittime: Harry, ventenne nigeriano con problemi psichiatrici impiccatosi nella struttura di Brindisi; Hossain Faisal, cittadino bengalese di 32 anni morto nei locali dell’Ospedaletto del CPR di Torino; Aymen Mekni, cittadino tunisino di 34 anni stroncato da un malore a Caltanissetta; Vakhtang Enukidze, cittadino georgiano deceduto a Gradisca d’Isonzo; Orgest Turia, cittadino albanese di 28 anni ucciso sempre in Friuli-Venezia Giulia da un’overdose di metadone.
Luoghi che andrebbero invece raccontati nella loro quotidianità per capirne il loro funzionamento, la loro organizzazione e cosa accade al loro interno nella specificità delle diverse realtà. «È un sistema molto violento di cui si parla troppo poco», afferma Accardo. «Noi non accogliamo, sostanzialmente deteniamo persone in condizioni allucinanti ed è grave che debba arrivare il morto per poter parlare di quello che avviene ogni giorno. Ogni giorno ci sono trasferimenti violenti, ogni giorno c’è una disattenzione alla singola persona. Una comunicazione di tipo scandalistico, che non produce cambiamenti in termini politici, è un’informazione residuale che non dà un quadro generale di quello che sta davvero accadendo».
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