Di Maurizio Ambrosini su Avvenire
È davvero ripresa l’emergenza sbarchi, o peggio – come qualcuno grida – l’invasione’? Stiamo ragionando (e sragionando) sui dati relativi agli arrivi dal mare sulle coste italiane nel 2021: 67.040, quasi il doppio rispetto al 2020 (34.154). Aumentati anche gli ingressi di minori non accompagnati: 9.478, a fronte dei 4.687 dell’anno precedente. Tanto basta ad alcuni attori politici e ai media consonanti per levare alte grida d’allarme, con annesse avventate e propagandistiche richieste di dimissioni della ministra Lamorgese.
Questi dati vanno, infatti, contestualizzati. Il 2020 è stato un anno peculiare, e speriamo irripetibile: la prima fase della pandemia ha provocato un brusco arresto della mobilità trasnfrontaliera, in tutte le sue forme, dal turismo, ai viaggi d’affari, ai movimenti dei migranti e delle persone in cerca di asilo. Se riandassimo invece agli anni precedenti, ci accorgeremmo che gli sbarchi del 2021 sono rimasti ben al di sotto dei numeri raggiunti negli anni centrali dello scorso decennio: 181.000 nel 2016, 119.000 nel 2017. Gli accordi con la Libia continuano a funzionare, oliati dai finanziamenti italiani ed europei e indifferenti alle proteste delle organizzazioni internazionali. E non è una buona notizia.
I nuovi migranti sulle pericolose rotte del mare, inoltre, sono molto diversi da quelli di allora. Non arrivano prevalentemente dai Paesi martoriati e instabili dell’Africa subsahariana, ma da una varietà di luoghi di provenienza. In primo piano è salito il Nord-Africa, in cui le speranze suscitate dalle primavere arabe sono andate in frantumi, i regimi s’induriscono, le economie languono: al primo posto troviamo la Tunisia (23%), seguita dall’Egitto (12%). Bangladesh (12%) e Iran (6%) occupano le posizioni successive, indicando altri punti di crisi geopolitica verso Oriente. Le rotte si sono diversificate: sono emersi nuovi porti d’imbarco per alcuni e si sono disegnate rotte più complesse e tortuose per altri. I nefandi presìdi libico e turco tengono, ma sono sempre più inadeguati, moralmente e anche ai soli fini del contenimento dei flussi.
Le drammatiche notizie dal confine croato e da quello polacco ci ricordano inoltre che le persone in fuga verso l’Unione Europea cercano affannosamente percorsi alternativi, malgrado la violenza dispiegata per fermarle. Si ha invece meno contezza del fatto che i richiedenti asilo arrivano in Europa in molti modi, ma vedono l’Italia in una posizione defilata. In attesa dei dati 2021, nel 2020 le richieste d’asilo sono state 122.000 in Germania, 93.000 in Francia, 89.000 in Spagna, contro 27.000 nel nostro Paese. La Spagna per esempio è interessata da flussi di richiedenti asilo sud-americani, soprattutto venezuelani, di cui neppure ci rendiamo conto.
Nel frattempo, si lamenta la carenza di manodopera per alimentare la ripresa economica. Nel nostro Paese il nuovo decreto flussi, annunciato pochi giorni fa e ancora in fase di perfezionamento, per la prima volta dopo anni ha ritoccato le quote al rialzo: 69.700 nuovi ingressi (contro meno di 31.000 negli anni scorsi), di cui però 42.000 dedicati al lavoro stagionale in agricoltura e nel settore alberghiero, e solo 27.700 a forme di lavoro diverse, in cui rientra un po’ di tutto, dagli artisti alle conversioni dei permessi per studio. Eppure lì sta una delle chiavi per ridurre gli arrivi dal mare e le richieste di asilo improprie: offrire un canale alternativo per ingressi sicuri, legali, ordinati, orientati da subito all’inserimento lavorativo. Magari ripristinando l’istituto della sponsorizzazione, che responsabilizzerebbe datori di lavoro e partenti e potrebbe coinvolgere le comunità locali. Per l’asilo, si dovrebbe invece insistere sull’ampliamento dei corridoi umanitari, che stanno facendo scuola in Europa, e di altre forme di partenariato, come quelle che coinvolgono le università.
In Canada già oggi oltre la metà dei richiedenti asilo sono sponsorizzati da soggetti della società civile o in forme miste pubblico-private, che vedono anche la partecipazione dei governi locali. Ciò che invece non funziona sono i rimpatri forzati: pochi (3.351 nel 2020), costosi (64 milioni tra il 2015 e il 2020), ingiusti (il 55% ha riguardato i soli cittadini tunisini, per i quali è più facile procedere) (Fonte: ‘Nigrizia’, novembre 2021). Ma anche inutili: chi è rimpatriato il più delle volte ritenta. Se riteniamo che gli arrivi via mare siano un problema, e lo sono soprattutto per il cinico traffico che li organizza e per il prezzo in vite umane, serve coraggio e inventiva per trovare soluzioni alternative, più umane e compatibili. Potrebbe essere un buon e realistico programma per questo 2022.