Un articolo di Rosita Rijtano su lavialibera
Decine di persone in fila per un tozzo di pane, con una coperta sulle spalle e ai piedi, affondati nella neve, delle infradito. Le abbiamo viste lo scorso febbraio nelle foto scattate all’interno di Lipa: il campo profughi al confine tra la Bosnia e la Croazia che alla vigilia di Natale 2020 è stato incendiato ed è diventato il simbolo dell’abbandono in cui vivono migliaia di migranti in transito ogni anno sulla rotta balcanica. Lipa, oggi in ricostruzione, è uno dei mega-centri in cui le autorità bosniache hanno scelto di confinare i profughi che arrivano nel Paese per lo più da Pakistan, Afghanistan, Siria, Iran, Algeria e Palestina. Una politica di “non gestione” del fenomeno migratorio che, come evidenzia il rapporto “Bosnia Erzegovina. La mancata accoglienza” curato dalla rete RiVolti ai Balcani, gode del sostegno morale e materiale dell’Unione europea. Strategia che si affianca ai respingimenti portati avanti dalla Croazia, con il coinvolgimento delle forze dell’ordine italiane impegnate al confine italo-sloveno nelle cosiddette riammissioni: una pratica, temporaneamente sospesa, che consente alla polizia triestina di rispedire in Slovenia parte dei migranti intercettati alla frontiera, su cui sono stati sollevati dubbi di legittimità e su cui lavialibera ha chiesto spiegazioni alle forze dell’ordine, ma non ha ricevuto risposte.
È stata proprio l’Europa a finanziare questi centri, spendendo negli ultimi anni oltre 100 milioni di euro per aiutare il Paese dei Balcani a far fronte all’arrivo di migranti. Circa 13,8 sono stati stanziati attraverso uno specifico meccanismo per le emergenze, mentre altri 88 sono stati assegnati dall’Ue alla Bosnia ed Erzegovina nel periodo 2018-2021 per “la gestione delle migrazioni, l’implementazione del sistema di asilo e accoglienza, nonché la gestione delle frontiere”. Buona parte di questi fondi è stata destinata alla costruzione di campi che Gianfranco Schiavone, dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), definisce “campi di confinamento”: grandi strutture, spesso fatiscenti e degradate, lontane dai centri abitati e altamente sorvegliate, in cui gli standard di vita sono molto bassi. “Una strategia scellerata che vede responsabilità della Bosnia ma soprattutto delle istituzioni europee – ha detto Schiavone durante la conferenza di presentazione del dossier –. Non è possibile che con soldi dei cittadini dell’Unione vengano finanziate strutture di questo tipo, in cui vengono sistematicamente violati i diritti umani”.
Da notare che il numero dei posti disponibili all’interno dei centri non solo è sempre rimasto di alcune migliaia, ma è persino diminuito nell’ultimo periodo: agli inizi del 2021 la capienza era di circa 4.700 persone a fronte delle 8.200 dell’anno precedente. Un numero ridotto se si pensa che, secondo l’ultimo report dell’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), nel mese di maggio 2021 sono stati registrati dalle autorità bosniache 1.937 nuovi migranti e richiedenti asilo. Il numero di arrivi è così salito a 5.920 persone nel 2021 per un totale di 75.333 da gennaio 2018 a oggi. Dati che rendono chiara la strategia della Bosnia, portata avanti grazie ai finanziamenti europei. Da una parte, concentrare i profughi in grandi campi. Dall’altra, limitare i posti di accoglienza e favorire una politica dell’abbandono di chi sceglie o è costretto, per mancanza di alternative, a vivere al di fuori di queste strutture.
La linea è evidente in uno dei dieci cantoni di cui si compone la Bosnia ed Erzegovina: il cantone Una Sana, al confine con la Croazia, dove sia l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) sia il Servizio affari esteri bosniaco hanno segnalato che nell’inverno 2020/21 il numero di migranti nei boschi, in aree pericolose e edifici abbandonati è cresciuto molto, superando anche quota tremila. Una diretta conseguenza non solo dell’aumento degli arrivi, ma anche della chiusura di molti centri cui fa da contraltare il proseguimento dei lavori per il nuovo campo di Lipa che entro l’inverno dovrà poter accogliere mille persone, di cui 200 minori non accompagnati. Lipa, nato nell’aprile 2020 grazie ai soldi dell’Unione europea e dell’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo internazionale (Usaid), sorge su un altipiano isolato e privo di servizi, a 25 chilometri dalla città più vicina, Bihac. Quando il 23 febbraio del 2020 un incendio lo rase al suolo, il mondo scoprì le condizioni inumane in cui erano stati costretti a vivere i migranti: a circa nove mesi dalla sua apertura, il campo non aveva ancora né le fogne né l’allaccio alla corrente elettrica.
L’attenzione è durata poco, ha evidenziato Anna Clementi, operatrice sociale dell’associazione Lungo la rotta balcanica, aggiungendo che “per l’Ue, oggi Lipa è diventato un modello da finanziare e replicare nonostante sia uno strumento di segregazione e confinamento delle persone”. Significativo è che l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), dopo aver gestito il campo per mesi, si sia tirata indietro quando è diventato inagibile per poi tornare ad aver un ruolo a partire dal 30 dicembre 2020, quando il Consiglio dei ministri bosniaco ha deciso che nell’arco di quattro mesi Lipa sarebbe stato riconvertito a centro di accoglienza ufficiale, a diretta gestione governativa con finanziamenti provenienti dall’Unione europea e con un ruolo di supporto tecnico proprio da parte dell’Oim. “Da quel momento – si legge nel report – la stessa Oim ha trasformato la propria narrazione del campo, da luogo deprecabile e inumano a possibile luogo di accoglienza sul quale veicolare attenzione mediatica e fondi anche raccolti da organizzazioni non governative di diversi Paesi dell’Ue”. Non solo. Secondo gli autori del dossier, il ruolo dell’organizzazione delle Nazioni unite nella gestione dei centri sarebbe ora alle battute finali e si sta procedendo a un progressivo passaggio di consegne nelle mani del governo bosniaco.
Accanto a questa politica portata avanti grazie ai finanziamenti Ue, definita “di confinamento”, è stata adottata una “strategia della deterrenza“: i migranti che vivono al di fuori dei campi sono stati criminalizzati e sottoposti a sgomberi, detenzioni arbitrarie e violazioni delle libertà personali. Anche in questo caso il governo del cantone Una Sana ha dettato la linea: a partire dall’estate 2020 ha creato ulteriori posti di blocco per impedire l’ingresso dei profughi al proprio interno, ha vietato loro l’acquisto di biglietti di bus e treni, gli assembramenti nelle aree pubbliche e la possibilità di prendere in affitto stanze in hotel e ostelli o in abitazioni private, andando a punire chi gli forniva sostegno. Così pure chi forniva supporto alle persone in transito, ha fatto marcia indietro. In parallelo, il discorso pubblico e politico nei confronti dei migranti è diventato sempre più ostile. Sono state organizzate manifestazioni, autorizzate dalle autorità, contro la loro presenza e non sono mancati pestaggi e intimidazioni.
A questo clima d’odio, si affianca l’inerzia del governo bosniaco nel prendere in carico le richieste di asilo. Nel 2020 su 14.432 manifestazioni di volontà di chiedere protezione, i procedimenti effettivamente avviati sono stati solo 244 (pari all’1,7 per cento del totale). A marzo 2021 le domande pendenti erano 237 di cui 109 presentate da persone appartenenti a nuclei familiari. Tutte azioni che creano un ambiente ostile, precario e pericoloso rendendo ancora più dura e difficile la sopravvivenza dei migranti in Bosnia. L’obiettivo è chiaro: spingere queste persone ad andare via e, in ultima istanza, disincentivare i nuovi arrivi.
“Si tratta di una strategia che si colloca in armonia con i respingimenti violenti, collettivi e a catena che le autorità croate attuano sistematicamente lungo i confini dell’Unione europea con la Bosnia ed Erzegovina”, denunciano i redattori del report. Respingimenti e violenze, documentate, che hanno potuto contare anche sulla complicità, seppur involontaria, delle forze dell’ordine italiane impegnate, fino a qualche mese fa, a rispedire indietro chi arrivava al confine italo-sloveno, dando inizio a “una catena illegale di restituzioni che spinge i migranti al di fuori dell’Unione Europea”, come spiegato da Schiavone a lavialibera. “Una pratica che porta le persone dalla Slovenia alla Croazia, dove subiscono documentate violenze da parte della polizia, e poi dalla Croazia alla Bosnia, dove vengono lasciati in condizioni di abbandono morale e materiale”. In pratica, la polizia italiana effettuava le cosiddette riammissioni – cioè restituiva a quella slovena parte dei migranti intercettati al confine – grazie a un accordo bilaterale firmato a Roma il 3 settembre 1996 tra il governo della Repubblica italiana e quello della Slovenia.
Un accordo che per i legali dell’Asgi ha una legittimità dubbia nell’ordinamento italiano ed è inapplicabile ai richiedenti asilo cioè a coloro che, alla frontiera, manifestano la volontà di chiedere protezione internazionale. Inoltre ciascuna riammissione dovrebbe essere accompagnata da un provvedimento motivato e notificato all’interessato, nonché impugnabile di fronte all’autorità giudiziaria. Mentre, secondo molte testimonianze raccolte dalle associazioni umanitarie, le persone riammesse non avrebbero ricevuto alcun provvedimento e ignare di tutto si sarebbero ritrovate prima in Slovenia, poi in Croazia e infine in Serbia o in Bosnia, anche se avevano intenzione di chiedere asilo nel nostro Paese. Lavialibera ha chiesto alle forze dell’ordine e al ministero dell’Interno di spiegare come vengono effettuate le riammissioni, ma non ha ricevuto risposte. La pratica è stata sospesa dopo che il tribunale di Roma in un’ordinanza del 18 gennaio 2021 l’ha giudicata illegittima, condannando il ministero dell’Interno. Ma a fine maggio Valerio Valenti, prefetto di Trieste, ha annunciato l’intenzione di riprenderla, precisando che i “presupposti giuridici sono ritenuti esistenti”. L’accordo bilaterale tra Italia e Slovenia “è stato ritenuto dal Ministero non solo valido ma applicabile e coerente con la legislazione europea, in particolare con il regolamento di Dublino, nella misura in cui la Slovenia garantisce l’esercizio degli stessi diritti da parte dei migranti e di rivendicare la protezione internazionale così come in Italia”, ha dichiarato Valenti.
“Chiediamo che l’Unione europea smetta di finanziare i mega-campi in Bosnia”, chiedono gli autori del report “Bosnia Erzegovina. La mancata accoglienza”, concludendo: “Si tratta di una politica irresponsabile che, unita all’instabilità prodotta dall’intreccio dei diversi livelli istituzionali interni alla Bosnia ed Erzegovina, genera una situazione di costante conflitto e ingovernabilità”.
Foto in evidenza lavialibera/Valerio Muscella e Michele Lapin
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