Le ultime settimane hanno visto media di ogni tipo e orientamento riportare la notizia di un incidente avvenuto a Roma in cui una donna, investita da un’automobile, ha perso la vita e altre persone sono rimaste ferite. A fare molto rumore l’etnia del giovane che guidava la vettura e degli altri passeggeri, tutti appartenenti alla comunità rom.
Rilanciamo quindi la riflessione di Sergio Bontempelli per Corriere delle migrazioni sulla notiziabilità dei fatti di cronaca.
Di Sergio Bontempelli
In gergo tecnico si chiamano “criteri di notiziabilità”: sono le regole, spesso implicite, che i giornalisti seguono per stabilire che cosa sia una notizia, cioè quali fatti siano meritevoli di essere raccontati. Ogni giorno, in qualsiasi redazione, arrivano centinaia e centinaia di segnalazioni, comunicati, dispacci di agenzia. Ovviamente bisogna scegliere, non si può pubblicare tutto: ci sono così eventi poco interessanti, irrilevanti, magari noiosi e scontati per il lettore, e altri che invece vanno considerati notizie.
Talvolta si ha però l’impressione che, almeno in alcune redazioni, questi criteri di notiziabilità facciano corto circuito. È quel che è successo quando i giornali hanno riportato in prima pagina la tragedia di Roma: otto persone ferite, e una donna filippina uccisa, da un’auto sparata a folle velocità, inseguita dalla polizia perché non si era fermata a un semaforo rosso.
Intendiamoci. La vicenda è tutt’altro che irrilevante: si tratta senza dubbio di una notizia degna di questo nome. Perché è accaduta in pieno centro cittadino e ha coinvolto – come vittime, o come spettatori attoniti e spaventati – decine di passanti. Perché una persona è morta, e c’è il dolore dei familiari, degli amici e dei connazionali. Perché i colpevoli non vengono trovati subito, e dunque bisogna seguire le indagini, gli inseguimenti, il lavoro certosino delle forze dell’ordine e della magistratura. Insomma, è un evento di cronaca da raccontare e anche da approfondire.
Il problema è che appena due settimane prima, a Sassano in Campania, era accaduto un fatto simile. Un guidatore ubriaco aveva ucciso Carmen Elena Pavel, giovane migrante romena, travolgendola con l’auto lanciata a folle velocità. In questo caso la notizia meritava un approfondimento ulteriore, perché il “pirata della strada” era un uomo ben conosciuto nella sua città, e aveva un ruolo di primo piano come attivista nella battaglia contro il petrolio. Eppure, la vicenda è passata sotto silenzio: niente prime pagine, niente aperture di tg, solo qualche articolo sulle cronache locali.
Più o meno negli stessi giorni, ad Aprilia (in provincia di Latina) erano stati uccisi due ragazzi adolescenti, travolti da un’auto impazzita mentre aspettavano l’autobus per andare a scuola. Si chiamavano Amandeep e Sandeep, fratello e sorella, ed erano figli di immigrati indiani. Anche questa sarebbe una notizia, perché tra l’altro i compagni di scuola dei due ragazzi sono scesi in piazza, e si sono organizzati per costituirsi parte civile al processo. Eppure, anche in questo caso, nessun quotidiano nazionale si è soffermato sulla vicenda.
Ecco il corto circuito di cui si parlava: perché un pirata della strada merita le prime pagine e i commenti indignati dei cronisti, e gli altri due pirati, anche loro assassini, anche loro folli e irresponsabili, se la cavano con qualche rigo in cronaca? La risposta può sembrare banale, eppure è l’unica che ci viene in mentre: gli assassini di Roma sono rom bosniaci, vengono dai campi alla periferia della Capitale. I pirati di Aprilia e di Sassano sono invece italianissimi, e le loro vittime sono straniere.
È come se fosse stato sovvertito un copione: perché, lo sappiamo tutti, è da almeno venti anni che di tanto in tanto – a periodiche ondate, per così dire – le prime pagine dei quotidiani sono occupate da bruti immigrati che uccidono, violentano, scippano, derubano onesti e operosi cittadini italiani. Su questi episodi di cronaca sono state costruite vere e proprie campagne sulla “sicurezza”, con il loro corollario di leggi, decreti di emergenza, dichiarazioni roboanti di politici e commentatori, espulsioni e manette “facili”.
Ora, negli episodi di Aprilia e di Sassano, il copione è rovesciato, per l’appunto: qui l’italiano è l’assassino, e l’immigrato è la vittima. E paradossalmente proprio questa circostanza dovrebbe spingere i giornali a dare rilievo alla notizia: perché è inusuale, rispetto ai racconti che circolano, e dunque suscita (dovrebbe suscitare) curiosità e domande nei lettori.
E invece non è andata così. Forse perché per alcuni quotidiani è notiziabile solo quel che risponde a un copione prestabilito, che si può raccontare nello stesso modo infinite volte: il mostro deve venire da fuori, deve essere un orco straniero a minare la nostra sicurezza. Ed è un’immagine rassicurante, questa, sembra quasi una fiaba della buonanotte: prima tutti erano buoni e felici, poi sono arrivati i cattivi da fuori, infine vennero i poliziotti (o i militanti della Lega Nord) a mandar via i malvagi. E vissero tutti felici e contenti.
Pazienza se in questo modo la realtà è fatta a pezzi, sovvertita, stravolta, resa irriconoscibile da una narrazione tanto rassicurante quanto lunare. Basta dare un’occhiata fugace alle statistiche sulla pirateria stradale per rendersi conto della complessità del fenomeno: tre volte su quattro, le auto impazzite sono guidate da cittadini italianissimi, mentre nell’11% dei casi lo straniero figura come vittima. Nel 20% degli episodi il pilota è ubriaco o guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, e le vittime sono spesso bambini e anziani, cioè le categorie più deboli della strada.
Ce n’è abbastanza per capire che il passaporto dei “pirati”, la loro nazionalità o appartenenza etnica, sono elementi del tutto irrilevanti. Se vogliamo garantire la sicurezza delle nostre strade, bisogna proteggere le categorie deboli (bambini e anziani) e magari costruirle meglio, le strade: ad Aprilia gli studenti delle scuole hanno fatto notare che la fermata dell’autobus era collocata in un luogo pericoloso, e anche per questo i due adolescenti sono morti.
Pazienza anche se le ricette proposte sull’onda dell’emotività facciano acqua da tutte le parti. In occasione della tragedia di Roma sono state invocate le ruspe sui campi nomadi: il che significa, grosso modo, che un ragazzo rom si vedrà abbattere la sua baracca solo perché un altro ragazzo, proveniente da un altro campo e da un’altra città, si è reso colpevole di un reato grave. Un po’ come dire che se un avvocato ammazza una persona, si chiudono tutti gli studi legali in tutta Italia. È una ricetta efficace contro gli omicidi, questa?
Già, perché qui stiamo parlando (anche) di efficacia. Di efficacia e (udite udite) di sicurezza. Il tanto strombazzato buonismo non c’entra proprio niente. Non è che si tratta di perdonare o di essere buoni (per quanto i parenti della vittima ci abbiano invitato a evitare campagne d’odio e di vendetta, dandoci una grande e inascoltata lezione di civiltà). No, non si tratta di buonismo, che comunque sarebbe meglio dell’onnipresente “cattivismo”. Si tratta proprio di efficacia. Perché quando avremo chiuso con le ruspe tutti i campi rom, il problema dei pirati della strada non sarà risolto, e questo in fin dei conti lo sappiamo benissimo: forse lo sa persino Salvini, o almeno se lo immagina.
E quindi smettiamola di usare un fatto di cronaca per vomitare odio contro i rom. Sappiamo che non serve a nulla e a nessuno. Anzi, forse con le inchieste di Mafia Capitale dovremmo cominciare a capire che l’odio contro i rom serve a chi ci lucra sopra, a chi fa affari sulla ghettizzazione e la segregazione. Non serve, di sicuro, alla sicurezza di chicchessia.
Sergio Bontempelli
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