di Mirko Benedetti su EJO
La percezione sociale dell’immigrazione è molto sopravvalutata in Italia, dove i cittadini la quadruplicano rispetto alle cifre ufficiali, pensando che la quota di stranieri presenti sul territorio sia pari al 30% mentre è appena del 7%. Si tratta di una discrepanza tra percezione e realtà del fenomeno migratorio pari a 23 punti percentuali, un dato che colloca l’Italia in testa a una graduatoria di 14 Paesi (Pagnoncelli 2016). Questa prospettiva falsata rischia di generare serie distorsioni informative, che possono nuocere al dibattito pubblico sul fenomeno migratorio.
In questo scenario appare cruciale il ruolo del giornalismo nella costruzione di un’opinione pubblica correttamente informata. La qualità della copertura mediatica in materia di immigrazione, tuttavia, è tramata di luci e ombre. Infatti, da una parte non mancano le buone pratiche, come quelle riconosciute nell’ambito di premi giornalistici ad hoc, tra cui il Lorenzo Natali e il Giuseppe De Carli. Altrettanto rilevanti sono le iniziative nel campo della formazione dei giornalisti, volte a sensibilizzare la categoria professionale sulle criticità che possono compromettere la corretta informazione sul tema. Si segnalano iniziative positive anche sul versante deontologico. Tra queste, spicca la Carta di Roma, confluita nel Testo unico dei doveri del giornalista, che sollecita gli organi di informazione a evitare sia “la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte riguardo a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti” sia “comportamenti superficiali e non corretti, che possano suscitare allarmi ingiustificati”.
A fronte di queste incoraggianti evidenze, tuttavia, l’informazione in tema di immigrazione continua a risentire di alcune criticità. Tra queste, spicca la tendenza a parlare di stranieri soprattutto per fatti di cronaca e, solo residualmente, in relazione a temi riguardanti integrazione, lavoro e società (Binotto, Bruno, Lai 2013). Persiste anche il fenomeno della “etnicizzazione della notizia” (Barretta 2019), per cui i media tendono a sottolineare in modo discriminatorio la nazionalità dei migranti nei fatti di cronaca. Per effetto della “politicizzazione della notizia” (Miletto, Tallia 2021), inoltre, il coverage mediatico dei migranti tende a non cogliere la complessità del tema, polarizzandosi invece in modo riduttivo tra posizioni “pro” e “contro”.
La copertura mediatica dell’immigrazione, inoltre, è imperniata tendenzialmente su pochi frame – ripetitivi, banalizzanti e ansiogeni – tra cui spiccano quelli che liquidano il tema a “difesa dei confini” e “minaccia della sicurezza interna” (Binotto, Bruno, Lai 2016). Altrettanto pervasivo è il “frame della debolezza” (Barretta 2019) che, sovraccaricando emotivamente la vulnerabilità dei migranti a ogni evento di natura meteorologica, geopolitica ed esistenziale, tende ad appiattire l’informazione a melodramma. Infine, va ricordata la propensione dei media a rappresentare i migranti non come individui ma “tendenzialmente in gruppo” (Tudisca, Pelliccia, Caruso, Cerbara, Valente 2017) se non addirittura come “gruppo anonimo de-umanizzato” (Greussing, Boomgaarden 2017). Queste narrazioni mediali si propagano in modo virale nel nostro ecosistema informativo, rischiando di intossicare la sfera pubblica con rappresentazioni gravemente fuorvianti del fenomeno, come quelle che associano i migranti a vettori di malattie e a causa di criminalità. Inoltre, possono costituire terreno fertile per la diffusione di fake news, che annoverano l’immigrazione come uno dei nove argomenti più esposti al rischio di disinformazione. Così incorniciato a livello simbolico, il tema rischia di sollecitare l’allarme sociale, fino a innescare reazioni aggressive, come l’hate speech sul web, di cui proprio gli immigrati sono le vittime principali (Istituto Giuseppe Toniolo 2017).
Alcuni (ab)usi giornalistici dei dati sulle migrazioni
Questi punti deboli dell’informazione sui migranti possono essere aggravati dall’(ab)uso giornalistico dei dati statistici che descrivono il fenomeno. Il racconto “in cifre” dei cosiddetti “viaggi della speranza”, in particolare, è viziato da alcune criticità che, in termini generali, possono essere ricondotte a una decontestualizzazione dei dati. Mossi dall’esigenza di “fare notizia”, infatti, i media tendono a omettere il contesto di riferimento delle cifre, soffermandosi non sulla descrizione complessiva del fenomeno ma su un particolare set di dati statistici o addirittura soltanto su uno. Di solito si tratta del dato più recente o di quello più eclatante, che è adatto a sbattere la statistica in prima pagina, rischiando tuttavia di menomarne gravemente la portata informativa.
La decontestualizzazione dei dati può attuarsi anche tramite altre strategie discorsive, come il cherry picking. Si tratta di una fallacia logica che consiste nel raccogliere come ciliegie (statistiche) solo i dati che corroborano la propria tesi, ignorando tutti gli altri. Per fare audience, inoltre, i media possono surriscaldare la temperatura del dibattito pubblico opponendo rissosamente il (rassicurante) dato statistico diffuso da una fonte al (preoccupante) dato statistico rilasciato da un’altra. Ne derivano vere e proprie guerre tra numeri che, se da una parte funzionano come format avvincenti, dall’altra disorientano i lettori, favorendo una diffusa incertezza sociale sulle cifre che contano davvero. Mediante un’analoga retorica del conflitto, inoltre, i media possono anche opporre la rappresentazione statistica del fenomeno migratorio (“astratta”, “lontana dalla realtà”, “falsa”) a toccanti storie di vita (“concrete”, “immerse nel reale”, “vere”), scelte in modo da contraddire o addirittura smentire il significato dei dati. Ne può scaturire un senso di sfiducia nelle statistiche sulle migrazioni e di delegittimazione dei soggetti che le producono.
Questi (ab)usi retorici delle cifre, attenti più all’emozionante impatto narrativo dei dati che alla loro reale valenza informativa, tendono a fare presa sui lettori, perché vellicano i loro istinti drammatici. Si tratta di bias, o distorsioni di giudizio, che possono indurre a esagerare in senso drammatico la portata informativa dei dati, fino a travisarne l’effettivo significato, persino in occasione di un ragionamento numerico elementare. Questa “Emotional Innumeracy” o ignoranza numerica legata alle emozioni (Herda 2013) tende a dopare la percezione dell’immigrazione, innescando un diffuso allarme sociale. Così banalizzata, inoltre, l’informazione sui “viaggi della speranza” può relegare sullo sfondo letture ben più articolate del fenomeno, comprese quelle che, lungi da facili sensazionalismi, possono inquadrare i movimenti migratori non solo in termini di sfida ma anche di risorsa, opportunità o addirittura inevitabile necessità per il sistema Paese.
Buone pratiche di Data Journalism
A fronte di queste approssimative rappresentazioni mediali, così precariamente collegate alla realtà delle cifre ufficiali sull’immigrazione, si registrano prove giornalistiche di segno opposto, basate sulla rigorosa valorizzazione dei dati statistici. Tra queste, spiccano alcuni progetti di Data Journalism, un genere di informazione che, generalmente, non trova spazio nei grandi gruppi editoriali italiani, anche se ci sono eccezioni virtuose, come DataRoom del Corriere della Sera, RepData di la Repubblica, Info Data del Sole 24 Ore, Datastorie di La Stampa e Data Journalism di Wired. Questi progetti, selezionati e analizzati con una metodologia descritta in dettaglio nell’articolo da cui è tratta questa sintesi, sono: 1. In viaggio con Sea Watch; 2. Europa Dreaming; 3. People’s Republic of Bolzano; 4. The Dark Side of Italian Tomato; 5. The Migrant Files.
In viaggio con Sea Watch è un’inchiesta che descrive la drammatica deriva di molti “viaggi della speranza” nel Mediterraneo centrale, attraverso i dati sulle missioni di ricerca e salvataggio dei naufraghi, intraprese dalle navi dell’organizzazione non governativa Sea Watch. Europa Dreaming, invece, presenta la realtà dei circa 26 mila profughi e richiedenti asilo transitati nel 2015 al passo del Brennero, per proseguire i loro “viaggi della speranza” verso l’Europa settentrionale. La prospettiva d’indagine, inoltre, travalica questa specifica circostanza e, grazie a dettagliate ricerche d’archivio, abbraccia l’intera storia delle migrazioni attraverso il valico di confine. People’s Republic of Bolzano sposta il focus dell’inchiesta su alcuni “viaggi della speranza” finalmente riusciti, quelli dei cinesi che, nel corso di un ventennio di ondate migratorie, sono arrivati a Bolzano, integrandosi poi gradualmente con la popolazione della città altoatesina. The Dark Side of Italian Tomato, invece, mostra che la massiccia esportazione sottocosto di pomodoro italiano in Ghana espone il mercato locale a una concorrenza sleale che ne segna la distruzione. The Migrant Files, infine, presenta un’impressionante geo localizzazione della fine dei “viaggi della speranza” attraverso il Mediterraneo, stimando in oltre 30 mila i migranti morti dal 2000 nel tentativo di raggiungere l’Europa.
Questi progetti scaturiscono dalla collaborazione di due o più soggetti. Non si tratta esclusivamente di organi di informazione ma anche di altre realtà, come network internazionali di Data Journalist, università, organizzazioni non governative e società a responsabilità limitata. La collaborazione tra più soggetti, inoltre, attesta che la complessità delle operazioni da svolgere è tale da richiedere spesso un articolato lavoro di squadra. Questa evidenza scaturisce anche dall’analisi della composizione dei team dei vari progetti, che possono arrivare a includere decine di professionalità. Si tratta di expertise che comprendono giornalisti, statistici, consulenti scientifici, sviluppatori di software, videomaker, fotografi, esperti di storytelling e data visualization.
Il valore aggiunto di queste task force, peraltro, è tale da poterle persino coinvolgere con successo in più di un progetto (Europa Dreaming e People’s Republic of Bolzano). Proprio questo articolato impianto organizzativo consente una selezione delle fonti statistiche che è particolarmente approfondita sia per varietà che per periodo di riferimento dei dati. Tutti i progetti in esame, infatti, ricorrono a più fonti statistiche, ufficiali e non ufficiali. I dati, inoltre, abbracciano sempre un vasto arco di tempo, mai inferiore a 15 anni, consentendo così un notevole inquadramento prospettico del fenomeno, che supera la logica emergenziale e sensazionalistica con cui è presentato di solito dall’informazione mainstream. In tre progetti su cinque, inoltre, l’ampiezza della rappresentazione statistica delle migrazioni si concilia con la notevole profondità d’analisi dei casi individuali. Così, mentre i dati fotografano le coordinate complessive dei “viaggi della speranza”, la viva voce dei protagonisti apre inedite prospettive sul vissuto personale dei migranti, toccando temi poco esplorati dall’informazione mainstream. Tra questi, il terrore per il viaggio e la scelta di oggetti portafortuna a protezione del tragitto; i rapporti dei migranti con la madrepatria; l’occidentalizzazione dei migranti di seconda generazione; le stereotipizzazioni che i migranti subiscono in Italia; i punti deboli delle politiche nazionali e comunitarie in tema di migrazioni.
A fronte di questa complessità organizzativa, non meraviglia che i progetti di Data Journalism in esame poggino sul sostegno di varie forme di finanziamento. Le spese sostenute per la loro realizzazione, inoltre, tendono a essere ammortizzate tramite intese con vari media partner, che acquistano i diritti di pubblicazione del progetto, contribuendo così alla sua diffusione, anche in un orizzonte internazionale.
Pur nella loro eterogeneità, questi progetti sono accomunati dalla tendenza a utilizzare i dati per fornire “the Big Picture” (Rogers 2011), cioè una rappresentazione dei “viaggi della speranza” che non esaspera emotivamente la singola circostanza del fenomeno ma punta a fornirne il “quadro d’insieme” e, a volte, persino una riflessione sulle sue cause, sui suoi possibili scenari di evoluzione e sugli eventuali limiti delle statistiche che lo descrivono. Questo impegnativo lavoro di contestualizzazione, inoltre, documenta in profondità anche i casi individuali, che tendono invece a essere sottorappresentati nell’informazione mainstream (Barretta 2019). Un approccio di questo tipo, quindi, non espelle dal discorso il frame “episodico” dei dati ma lo integra in un frame “tematico”, valorizzando in modo coerente le connessioni tra l’uno e l’altro. Ne risulta un deciso innalzamento della qualità dell’informazione sui “viaggi della speranza”, attestato dal fatto che alcuni di questi progetti hanno vinto prestigiosi premi internazionali, tra cui il Data Journalism Award e lo European Press Prize
Conclusioni
Queste esperienze di giornalismo basato sui dati possono costituire un positivo stimolo competitivo per i media mainstream, sollecitandoli a correggere i loro punti deboli in tema di “viaggi della speranza”. Inoltre, assumendo i numeri come materia prima dell’informazione, questo genere di giornalismo sollecita il processo democratico di disclosure delle statistiche di pubblico interesse, promuovendo il loro rilascio in formato aperto (Open Data) che, secondo l’Open Data Barometer, in Italia presenta ampi margini di miglioramento.
Sempre sul versante della promozione della cultura statistica, il Data Journalism sui “viaggi della speranza”, in virtù del suo potente appeal iconico, rende meno ostiche le complesse cifre sulle migrazioni, migliorando la numeracy dei pubblici di riferimento e ispirando anche promettenti esperimenti narrativi di Data Storytelling da parte dei produttori pubblici dei dati. Da ultimo, questo genere di giornalismo favorisce l’accesso a uno specifico sottoinsieme di statistiche, quelle ufficiali. Si tratta di un patrimonio di informazione che nelle moderne democrazie ha il rango di bene pubblico. Come tale, è a disposizione dei cittadini e dei policy maker per conoscere i fenomeni e assumere le decisioni sulla base di rigorose evidenze quantitative, preservando gli utenti dalle surrettizie “prevaricazioni statistiche” (Schield 2005) insite in tante rappresentazioni stereotipate o pregiudiziali dei “viaggi della speranza”.
Bibliografia
Barretta P., “Etnicizzare” la notizia: le cattive abitudini dell’informazione, in “Associazione Carta di Roma”, Roma, 14 Agosto 2019, https://www.cartadiroma.org/news/in-evidenza/etnicizzare-la-notizia-le-cattive-abitudini-dellinformazione/
Binotto M., Bruno M., Lai V., Tracciare confini. L’immigrazione nei media italiani, Franco Angeli, Milano 2016.
Binotto M., Bruno M., Lai V., Gigantografie in nero. Ricerca su sicurezza, immigrazione e asilo nei media italiani, Lulu, 2013.
Greussing E., Boomgaarden H. G., Shifting the refugee narrative? An automated frame analysis of Europe’s 2015 refugee crisis, in «Journal of Ethnic and Migration Studies», Taylor & Francis, London, 2017, vol. 43, n. 11, pp. 1749-1774.
Herda D., To many Immigrants? Examining alternative forms of immigrant population innumercay, in “Sociological perspectives”, 56, 2013, 213-239.
Istituto Giuseppe Toniolo, Diffusione, uso, insidie dei Social Network, Il Mulino, Bologna 2017.
Miletto E., Tallia S., Vite sospese. Profughi, rifugiati e richiedenti asilo dal Novecento a oggi, Franco Angeli, Milano, 2021.
Pagnoncelli N., Dare i numeri. Le percezioni sbagliate sulla realtà sociale, Bologna, EDB, 2016.
Rogers S., Facts Are Sacred. The Power of Data, London, Guardian Books, 2011.
Schield M., Statistical Prevarication: Telling Half-Truths Using Statistics, Invited Paper at the Meeting of the International Association for Statistical Education, Sydney, Iase, 2005, pp. 1-6.
Tudisca V., Pelliccia A., Caruso M. G., Cerbara L., Valente A., La rappresentazione dei migranti nelle testate giornalistiche online europee: un’analisi pilota, in Migrazioni e integrazioni nell’Italia di oggi, a cura di C. Bonifazi, Roma, Cnr, 2017.
L’articolo, tratto sinteticamente dall’originale, impegna unicamente l’autore e non riflette necessariamente il punto di vista dell’Istituto nazionale di statistica (Istat).