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Il potere della fotografia. Repubblica a colloquio con Paolo Pellegrini

L’intervista di Repubblica al fotografo Magnum Paolo Pellegrini: «Una fotografia non è un’ideologia che stravolge le menti, è un seme»

Con la pubblicazione della foto di Aylan Kurdi, il bambino che giace su una spiaggia turca senza vita, si è tornato a parlare dell’impatto delle immagini, della loro potenza.

Riprendiamo dalla nostra rassegna stampa l’intervista a Paolo Pellegrino realizzata da Repubblica, sulla forza delle fotografie e l’etica del fotografo.

Quando una foto cambia la storia

Di Michele Smargiassi, La Repubblica

Cambiano il corso della storia o sono alibi all’indifferenza? Scuotono il potere o anestetizzano le coscienze? Troppo spesso le fotografie dell’ingiustizia e del dolore estremo finiscono sul banco degli imputati o sul lettino dello psicanalista, mentre vorrebbero essere semplicemente le testimonianze di giornalisti che usano le immagini al posto delle parole.

Come Paolo Pellegrini. Da dieci anni fa parte di Magnum, l’accademia del fotogiornalismo, ed è appena rientrato dalle isole dell’Egeo, dove ha fotografato per le maggiori testate internazionali, e oggi per Repubblica, l’esodo più impressionante del secolo. Con lui ragioniamo sul potere delle fotografie, che proprio in queste settimane, dall’icona tragica del piccolo Alan riverso sulla spiaggia di Bodrum alle maree umane sulle autostrade balcaniche, sembra essere stato capace di cambiare l’opinione pubblica e le decisioni dei governi.

La fotografia riesce solo a raccontare momenti particolari. Come può affrontare un dramma epocale senza fermarsi all’emozione dell’attimo?

«La fotografia ha la capacità di fare convivere lo specifico e l’universale. Non che sia facile trovare il punto d’equilibrio. Ogni fenomeno storico è fatto di singoli drammi umani che non possono essere ignorati, altrimenti restano solo le fredde ragioni della politica. Ma avendo lavorato per anni in Medio Oriente so che non puoi capire il perché di quelle guerre infinite senza andare oltre l’evento».

Ferdinando Scianna, tuo predecessore in Magnum, dice che la fotografia mostra il cadavere ma non l’assassino.

«Sì, la singola immagine non può dare conto di cause ed effetti, ma un lavoro più lungo può mettere a confronto il dramma manifesto con situazioni nascoste, creare una tensione fra il fatto e il perché».

Fotografare ancora una volta l’esodo globale cosa può dire di nuovo?

«A Lesbo o a Kos è comunque necessario andare per creare documenti della storia. Ma questo reportage fa parte di un progetto di media durata che conduco assieme a Scott Anderson del New York Times Magazine. L’orizzonte è il Medio Oriente, i rifugiati sono una delle questioni chiave che abbiamo identificato. Nel corso del lavoro rendiamo disponibili singoli servizi, è un doppio binario fra cronaca tempestiva e ricerca di ampio respiro».

È finita l’epoca dell’immagine che riassume tutto?

«All’interno di un lavoro di lunga durata ci può essere anche un momento di spot news. A Lesbo ho fotografato una battaglia tra profughi siriani e afghani, i secondi pensavano che le autorità privilegiassero i primi. Un evento che è un’informazione in sé. Ma io continuo a pensare che il senso sia nella somma di molti racconti».

A volte si prende la scorciatoia, e si finisce nell’icona. Hai visto la foto della bimba che gattona davanti agli scudi dei poliziotti turchi?

«Una foto d’impatto, molto facile, demagogica, credo non l’avrei fatta. Da lettore mi sento a disagio quando il fotografo mi impone un’emozione. La foto-icona è un’immagine chiusa, che non ti chiede di fare null’altro che commuoverti. Capisco l’esigenza delle agenzie, ma la foto singola è sempre a rischio. A me interessa una fotografia aperta, in cui io sono in mezzo a quel che vedo, mi faccio domande, e ogni risposta sposta l’orizzonte su altre domande».

Barconi colmi come alveari: nelle fotografie dei profughi scompaiono i volti, la massa umana spaventa. Avverti il rischio?

«La fotografia ha sempre a che vedere con la giusta distanza fisica ed emotiva. Io cerco i volti, metto nel conto la tacita accettazione della mia presenza sulla scena. Non voglio che il lettore pensi che sono fotografie scattate da un occhio disincarnato».

Fotografare significa non intervenire, antica obiezione etica. Hai mai provato un senso di passività?

«Non è facile stare dentro una tragedia senza intervenire. Mi è capitato di mettere da parte la fotocamera, a volte. In Libano nel 2006 sono entrato in un villaggio bombardato dagli israeliani. Sembrava deserto, ma in uno scantinato abbiamo trovato un gruppo di anziani, nascosti da giorni, troppo vecchi per farcela da soli. Non potavamo fotografare e andarcene. Li portammo in una zona meno esposta, in attesa di soccorsi. Quando sei l’unico che può fare qualcosa, prevale l’uomo sul fotografo. Ma quasi sempre in quelle occasioni non sei l’unico. A Lesbo sbarcavano persone stremate, sofferenti, ma anche felici di avercela fatta, e io fotografavo, ma di fianco a me c’erano i volontari. La mia missione era di fare il mestiere che mi sono scelto: l’occhio delegato di una comunità».

C’è un limite etico a quello che può essere fotografato?

«Ho una intera galleria mentale di foto non fatte. Per pudore, o paura. Ci sono anche foto che rimpiango di avere fatto. Non c’è una formula. Non c’è differenza fra l’etica del fotografo e quella dell’uomo. C’è sempre una tensione, di volta in volta cerchi di capire qual è la cosa giusta. La foto è pensiero, cambia con noi, oggi sono diverso da dieci anni fa, sono più vecchio, sono un padre…».

La fotografia del piccolo Alan: l’avresti fatta?

(Lungo silenzio) «Puoi capirlo solo quando sei li. Sì, probabilmente l’avrei fatta, è comunque un’immagine importante, ha un merito: ha fatto irruzione nel discorso pubblico e poi in quello politico, e questo è quel che si chiede a una buona fotografia giornalistica. Un giorno, a Cana, dopo un bombardamento, trovai decine di cadaveri in un edificio in cemento che avevano pensato fosse un riparo. C’erano bambini. Con molta consapevolezza decisi che era necessario documentare quel crimine».

Hai mai avuto la tentazione di aumentare la dose di shock per “bucare” l’attenzione del lettore, per evitare l’assuefazione?

«Sì, può anche esistere quella che gli americani chiamano compassion fatigue, ma ti chiedo, qual è l’alternativa? Smettere di fotografare perché tanto non serve? Fra cinquant’anni, quando uno storico revisionista minimizzerà la sofferenza di queste persone, avremo dei documenti».

Dovunque accada qualcosa, un telefonino scatterà la foto prima dite. Questo come cambia il tuo lavoro?

«Sì, tutti fanno foto. I volontari, i soccorritori, i profughi stessi appena sbarcati. Ma questa ansia generale di produrre immagini mentre si vive un’esperienza forte fa parte delle cose da raccontare. Non mi crea nessun problema, sono testimonianze, come i ricordi che uno porta con sé, io faccio altro, raccolgo quel che vedo e lo rielaboro come meglio so fare».

E dunque, le fotografie cambiano la storia?

«Io non credo di potere cambiare la testa a nessuno, e non è questo il compito che mi sento addosso. Io voglio far parte di un mondo dove le fotografie entrano in un circuito sociale, cariche di informazioni e di emozioni, acquistano nel loro vagare anche una vita propria, possono incontrare persone e coscienze e far nascere qualcosa. Una fotografia non è un’ideologia che stravolge le menti, è un seme: se sposta qualcosa lo fa piano, crescendo dentro chi la guarda. A questo credo ancora, lo dico da fotografo ma anche da lettore, perché nessuna fotografia esiste davvero se non incontra una coscienza che la accoglie e la completa».

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