Edito da Utet ad agosto 2022, “Sbiancare un etiope” è l’ultimo lavoro del linguista Federico Faloppa, docente presso l’Università di Reading in Gran Bretagna e coordinatore della Rete Nazionale per il Contrasto al discorso d’odio
di Piera F. Mastantuono, Carta di Roma
Lo stereotipo rispetto alla pelle, si scopre nel libro, ha radici molto solide, e, soprattutto, muta, si adatta, cambia forma nel senso linguistico e culturale. Si inizia con la disamina del proverbio, ma poi quel concetto di sbiancamento passa attraverso il teatro, la religione, la letteratura e infine la pubblicità. Come si spiega questa metamorfosi?
Ho trovato per caso un dato linguistico, poi ho voluto capire da dove arrivasse. La cosa interessante è che avendo potere allegorico e figurale così forte uno degli sbocchi è quello visuale, vedere una persona che ne sbianca un’altra ha un forte potere comunicativo, rimane impresso. C’è un tentativo di interpretarlo, anche colto, che arriva fino alla letteratura alchemica, dal basso c’è lettura semplice, quindi sbiancamento è possibile, come è possibile? Il proverbio arriva da classicità e da testi biblici. Dei diversi piani di lettura, quando si arriva a quello pubblicitario è centrale il messaggio coloniale. Fa vedere che è impossibile sbiancarti a meno che tu non diventi occidentale.
Questo è uno dei temi di lunga durata, è un motivo che classicamente si ripresenta, a vari livelli e a vari testi, tradotto o risemantizzato, potentissimo, quando si ripresenta non è per caso. Il nostro immaginario parte dal bianco come virtù. La cosa interessante è come comunicano questi testi, non solo dalla tradizione, si intrecciano anche elementi alti.
Un altro passaggio molto interessante è il moro “sbagliato”, il difetto è la nerezza o la correlata appartenenza ad un gruppo sociale? Linguisticamente il “moor” è iperonimo, per indicare colore della pelle, attitudine, regione o combinazione dei tre elementi, quali sono gli effetti culturali di questo livellamento linguistico?
La nerezza viente intesa come un difetto, che in quanto tale viene codificato in relazione al concetto di morale, perciò ogni traduzione richiede un ritocco della morale, da chi traduce, da chi cerca di adattare questo materiale ai vari contesti culturali.
Su piano morale viene fuori il fatto che l’essere nero scuro, vuol dire appartenere ad una classe sociale inferiore. Iperonimo diventa onnicomprensivo. Nell’avanzare del tema, nel tradursi, nel risemantizzarsi porta con sé un parte allegorica visuale, una parte lessicale, presenza del sapone, anche a livello di parola cambia, ma il senso rimane. Si adatta sul piano formale, linguistico.
I pregiudizi si combinano, il sapone inteso come salvezza non deve essere sprecato per il nero, tanto non si sbianca, il moro non ha più bisogno di essere salvato?
Allegoria di sbiancamento efficace funziona solo con alcuni testi biblici, come il Cantico dei cantici o il Battesimo dell’eunuco. C’è un momento in cui l’etiope si può sbiancare ed è uno sbiancamento allegorico. L’idea dell’etiope affonda sue radici nella lettura dei testi biblici. Il tema dell’etiope diventa molto popolare in alcuni momenti. In Italia si afferma di più la tradizione alta mentre dalla cultura elisabettiana in poi diventa un topos radicato fortemente.
Dopo il battesimo del moro come topos, si legge come, dopo questa purificazione, “l’umile moro può finalmente assumere la posizione che secondo la cultura del tempo gli spetta nella società, mondata dal peccato ma totalmente sottomessa. toccata dalla grazia di Dio, insomma, ma certo non da quella dagli uomini”, si tratta alfine di razzismo consapevole?
Il razzismo scientifico nasce nel ‘700. Parlarne prima è fuorviante. Nell’800 c’è invece la consapevolezza, poiché si serve anche del messaggio evangelico. Colonialismo si serve della Chiesa come strumento per dire di civilizzare il nero, c’è un sincretismo di messaggi, razzista, coloniale, religioso. Il messaggio colonizzatore riporta una sottomissione del nero, anche da un punto di vista gerarchico, il clero che conta è bianco. Il messaggio del sapone è questo, in quegli anni anche chiesa anglicana si poneva problema di fare vescovi neri, se farne o meno. Così bianco battezza nero. La pubblicità non è più solo marketing è un messaggio che entra a pieno titolo nel dibattito anche politico. Qui si vede l’attivazione, ogni volta il messaggio viene riattivato ed attualizzato. Nell’800 l’attualizzazione è razzista, non è possibile dirlo per i secoli precedenti.
La pubblicità è un linguaggio per le masse, in che modo il messaggio dello sbiancamento del sapone opera sull’opinione pubblica, come e se si contrasta? Strumenti di contrasto di questo pregiudizio?
Tradizione colta fa circolare messaggio, ma poi anche per pubblico più ampio. Immaginario razzializzante si serve ancora di questo pregiudizio, considerandolo esotico. Su questo c’è molto da fare, alterità c’è molto da fare. Prodotti sbiancanti utilizzati da tante persone, lì lavoro da fare è di tipo sociale, ovvero ragionare sul fatto che se anche a Parigi l’élite è quella più sbiancata, c’è una scala sociale che si deve attivare, una consapevolezza nelle persone che vogliono sbiancarsi.
Il sapone è salvezza, mi sembra il concetto che permane tutt’oggi, è cambiato ed è radicato nei prodotti per la pelle sbiancanti, gli altri stereotipi sono classificati come razzisti, come mai questo del biancore resta solido al suo posto? C’è ancora la parte allegorica.
Questo messaggio è del colonialismo, il nero si deve sbiancare se vuole salire nella scala della società. Il concetto sotteso è che se sei colonizzato sei nero, il meglio che possa succederti è sbiancarti con il sapone che noi ti forniamo. La tecnica dell’igiene arriva dall’Europa. In alcune pubblicità dell’inizio del ‘900 si vedono i neri che provano a sbiancarsi sono i neri della Belle epoque, sono i neri che diventano spettacolo per l’alta borghesia europea. Sarai sempre nero, puoi renderti solo più accettabile. Rimane nel XX e XXI secolo la piaga dei prodotti sbiancanti, rimangono perché il messaggio è che la bianchezza è un modello.
In questo libro ho cercato anche di “decolonizzare” un mio immaginario, anche come cittadino del mondo.
Questo scavo mi ha permesso di dire che il proverbio non è detto che sia tutto razzializzante, si appiattisce, invece è importante capire cosa sia razzista.
Sul piano del metodo questo libro mi ha insegnato a lavorare su tante fonti diversi, a interrogarmi anche sull’uso della parola, del proverbio, nel contesto, in questo modo ne capisco la profondità, la violenza del linguaggio. Fare un opera filologica che lavorasse su alto e basso, il popolare e le riprese colte, i generi letterari, la visualizzazione di ciò che viene raccontato.
Continuità e discontinuità, su piano del metodo credo molto in questo libro, è una militanza sul piano del metodo.