Intervista al regista Andrea Segre: l’ultimo film nelle sale, il dibattito pubblico e politico, la comunicazione. Perché il prossimo appuntamento è quello per cambiare l’ordine delle cose.
Di Sara Denevi
«Un lavoro di ricerca e studio iniziato quando, al centro del dibattito sull’immigrazione, non si ponevano gli accordi internazionali con la Libia», così introduce al film Andrea Segre , regista de L’ordine delle cose. Il film racconta il mondo dell’immigrazione dal punto di vista di chi ha il compito di regolare il flusso di migranti, con tempi scanditi dalla legge e secondo i criteri dello Stato: il protagonista è, infatti, un funzionario del Ministero chiamato ad operare in Libia per la gestione dei flussi e ridimensionare il numero degli arrivi sulle coste italiane.
Come nasce questa idea?
Tutto è iniziato tre anni fa, quando l’argomento non era oggetto di cronaca quotidiana. Anche se con il mio precedente lavoro, “Mare chiuso”, avevo già trattato la questione dei respingimenti, che allora venivano fatti direttamente attraverso le operazioni navali italiane all’epoca del governo Berlusconi, ho deciso di riprendere in mano l’argomento dopo che la corte europea, già nel 2012 , ha condannato il comportamento dell’Italia e io ho intuito che, per aggirare la sentenza si sarebbe chiesto ai libici di intervenire direttamente. Mi preme, in tal senso, sottolineare che il film non è un documentario ma ricostruisce quanto studiato e mi auguro si capisca che le operazioni attuali sono simili a quelle del governo Berlusconi. Invece di occuparsi dei bisogni delle persone si cerca di chiudere le falle di sistema e così si producono emergenze.
Durante il lavoro di preparazione hai incontrato chi realmente svolge il lavoro del protagonista, com’è andata?
Tutto è partito da uno studio reale. Chi ha accettato di incontrarmi era, chiaramente, predisposto ad uno scambio di opinioni sul tema. In tal senso si è trattato di incontri intensi e motivati, perché c’è stata la volontà di affrontare uno scambio di riflessioni senza che nessuno formulasse giudizi. Io, infatti, non mi sento di giudicare chi svolge un lavoro complesso come questo, poiché può trovarsi coinvolto in logiche politiche trasversali tese anche a dare risposte all’opinione pubblica.
Il Ministro Minniti era stato invitato alla presentazione a Roma del film due giorni fa e ha risposto di non poter partecipare. Su cosa avresti voluto incentrare la riflessione nel corso dell’incontro?
Avrei voluto impostare una riflessione su tre questioni per me fondamentali: in primis mi domando se il governo esprima preoccupazione per le condizioni in Libia, condizioni che erano note anche prima e di cui tutti siamo a conoscenza, perché non si sia potuto evitare che le persone fossero destinate a tali luoghi. poi, proprio perché non siamo a riusciti ad evitare questo, vorrei sapere ora che cosa si stia facendo. Infine avrei voluto parlare dell’origine della pressione migratoria: parliamo di persone che in origine non hanno nessuna possibilità di viaggiare in altro modo e il fatto che siano privi di questo diritto ha creato questo imbuto sul fenomeno. Io sono d’accordo con il ministro quando dice che le immagini degli sbarchi creano una situazione di panico, ma la soluzione non è non mostrarle bensì riuscire a far in modo che le persone abbiano il diritto di viaggiare e noi il diritto di controllarle. Esattamente come accade per noi che abbiamo un passaporto, ci spostiamo ed è impensabile viaggiare da un posto all’altro, dell’Europa per esempio, senza essere controllati, senza che nessuno sappia che ci siamo spostati. Non è certamente una questione legata solo alle risposte da parte del ministro Minniti, sarebbe interessante che il dialogo si sviluppasse anche con altri interlocutori politici.
“Dammi qualcosa di notiziabile” è una frase che nel film ferisce al pari di scene più fisiche, è possibile uscire da questo tipo di retorica?
Credo che l’agire politico non debba essere schiavo dell’utilità comunicativa, ma credo che la comunicazione debba esser messa al servizio dei problemi concreti. Le notizie devono dare atto di un risvolto concreto. Il fatto che i criteri e le priorità di comunicazione vengano prima dei contenuti politici sui fatti reali significa che al momento sono invertite le priorità.
Cosa è cambiato in Italia rispetto a come si affrontano i temi legati alle migrazioni?
È cambiato l’approccio laddove ci sono gruppi che si attivano concretamente, ci sono persone che quotidianamente lavorano o si relazionano con i migranti e sanno contestualizzare la situazione. Il problema è che tutte queste realtà associative, autorganizzate e di singoli non trovano rappresentanza a livello politico.
Stai portando questo progetto in giro per l’Italia, prossime tappe e prossimi obiettivi?
Il film sta andando bene, oltre 50.000 persone l’hanno visto e grazie anche a loro stanno partendo diversi progetti territoriali. Ci sono varie realtà che stanno condividendo il lavoro e sono un appoggio concreto: Amnesty International, Naga, Medu, ZaLab. Al momento “Per cambiare l’ordine delle cose” è un pamphlet distribuito con il supporto di banca etica che offre chiarimenti sul film e sulla tematica e la cui lettura, può essere interessante dopo aver visto il film. Il prossimo obiettivo è l’organizzazione del forum nazionale che avrà proprio questo nome, vedrà coinvolte tutte le realtà che ho nominato prima e tutti i sostenitori che stanno promuovendo il film attraverso i progetti territoriali. L’appuntamento del forum nazionale per cambiare l’ordine delle cose è previsto a Roma il 3 Dicembre.
L’immagine in evidenza è tratta dal film L’ordine delle cose