Di Max Mauro
Un giocatore dilettante di calcio viene squalificato per dieci giornate per insulti razzisti rivolti a un avversario di origine africana. Capita in Friuli, campionato di prima categoria della provincia di Udine. Così riferisce il quotidiano locale, il Messaggero Veneto. Gli insulti razzisti sono consuetudine domenicale per i calciatori dilettanti di colore, ma il più delle volte non vengono sentiti dall’arbitro e pertanto non finiscono nel referto. Talvolta, raramente, l’autore dell’insulto è così sboccato e sfacciato che l’arbitro non può ignorarlo. Scatta così la squalifica di dieci giornate, introdotta dalla Figc nel 2013 per dare un segnale “forte” di impegno contro il razzismo nel calcio a tutti i livelli, come sollecitato dalla Uefa. In realtà, questa norma è stata applicata in pochissime occasioni.
Nel corso degli ultimi due anni la squalifica per insulti razzisti ha colpito giocatori di diverse categorie dilettantistiche, e perfino un ex giocatore di serie A, Emiliano Bonazzoli, esibitosi in insulti razzisti verso un arbitro di origine immigrata durante una partita di Serie D. Al di là del numero di tesserati squalificati, il problema è diffuso, capillare. Il sistema calcio italiano è impregnato di una cultura razzista storicizzata e di pregiudizi verso tutto quello che non è “bianco, italiano, maschio, apparentemente eterosessuale”. Così si spiegano le uscite apertamente razziste del presidente della Figc Tavecchio, di quelle altrettanto razziste di Sacchi (“troppi neri nelle squadre giovanili”), Eranio (“i neri non san difendere”), De Laurentis (“meno male che erano olandesi, mica nigeriani”), Paolo Berlusconi (“il negretto Balotelli”), Zamparini (“lo zingaro Mutu”), Marcello Lippi (“nel calcio italiano non esiste razzismo”), giusto per citarne alcuni entrati nelle cronache negli ultimi anni. E che dire delle dichiarazioni dell’ex presidente della Lega Nazionale dilettanti contro il calcio femminile (“quattro lesbiche”) e quelle omofobe dell’allenatore dell’Arezzo (“in campo non voglio checche”).
In questo triste contesto, la storia di Udine diventa significativa soprattutto per le dichiarazioni rilasciate al giornale locale dall’allenatore del giocatore squalificato. Per la cronaca, lo stesso giocatore aveva da poco completato una squalifica di quattro mesi, poi ridotta a due, per aver aggredito l’arbitro durante una partita ufficiale. Nonostante ciò, l’allenatore si perita di difenderlo rivoltando la questione, operando una capriola dialettica inspiegabile con gli strumenti della ragione. Lo fa facendo passare il giocatore razzista e tutti “noi bianchi” (nelle sue parole) come vittime.«Siamo arrivati al punto in cui a essere penalizzati siamo noi bianchi. I giocatori di altra razza possono insultarci passandola sempre liscia, mentre chi offende loro viene punito. Ma forse non è nemmeno il caso di arrabbiarci o meravigliarci, visto che stiamo mettendo in discussione perfino il presepio nelle scuole».
È difficile immaginare un’argomentazione così limpidamente, profondamente razzista e allo stesso tempo diretta, comprensibile ai più e destinata a trovare purtroppo dei consensi. È un piccolo saggio di ignoranza storica che andrebbe inserito nei libri di scuola per aiutarci a capire cosa non va in una società che non (ri)conosce il razzismo. Non dimentichiamo che pochi mesi fa il parlamento italiano ha assolto, con voto trasversale, il senatore della Lega Nord ed ex-ministro Roberto Calderoli che aveva paragonato l’ex ministra Cecile Kyenge a una scimmia. Per i parlamentari di opposte fazioni politiche il suo non è un insulto che incita all’odio razziale e non merita di essere giudicato da un tribunale. Conta meno di una querela per diffamazione. A parte tutto questo, la dichiarazione dell’allenatore di Udine merita una riflessione e una risposta. Non può essere ignorata, perché è molto più grave degli insulti rivolti dal suo giocatore ad un avversario di colore e perché fa capire che il problema è più profondo di quello che appare.
Come per altri aspetti, il calcio funziona da amplificatore di sentimenti che scorrono sottopelle nella società e ne rappresentano i tratti meglio di molti trattati sociologi o editoriali giornalistici. In termini rozzi l’allenatore ci dice: il razzismo esiste, ma i razzisti sono “loro”. Per loro si intende tutto quello che è “altro” dall’idea di “italiano” trasmessaci dalla scuola, dalla televisione, dalla politica, dalla società. È altro chi ha un colore della pelle un po’ più scuro, è altro lo straniero in generale, l’immigrato, l’extracomunitario. È ovvio che il nero è più altro di altri perché quella che è semplicemente una caratteristica somatica assomma nel discorso razzista tutte le altre categorie. È l’altro per definizione. James Baldwin, in un illuminante saggio attorno a un suo viaggio in Svizzera negli anni cinquanta del novecento, sottolinea come il nero (the black man) cerca, utilizzando tutte le risorse a sua disposizione, di far sì che il bianco (the white man) smetta di considerarlo un’esotica rarità e lo riconosca come un essere umano. D’altra parte, ricorda Baldwin, è stato l’uomo bianco occidentale a trascinare violentemente il nero dentro la sua storia riducendolo in schiavitù e privandolo irrimediabilmente del suo passato. Baldwin aveva negli occhi la sua stessa storia famigliare, essendo figlio di un figlio di schiavi della Louisiana.
Dunque, le parole dell’allenatore. Come è possibile un ragionamento come il suo? Da dove nasce un tale vuoto culturale e umano? Perché i grandi veicoli di cultura popolare non fanno uno sforzo per spiegare la società ai suoi cittadini?
Tutte domande che reclamano risposta. Io credo che al di là delle squalifiche quello che può realmente portare un cambiamento, nello sport e nella società, è il dialogo. Il dialogo e l’educazione, intendendo per questo l’intervento formativo delle istituzioni, ma non solo. In questo caso specifico, perché la federazione invece di comminare una squalifica di dieci giornate non ne dà una di cinque ma obbliga lo squalificato a un breve percorso formativo per imparare l’abc del razzismo. Che so, un incontro di tre ore nella sede della federazione con una persona esperta di interculturalismo e sport. Magari una persona di colore. O l’obbligo ad arbitrare una partita tra bambini di varie origini etniche. Se non si presenta all’incontro la squalifica viene raddoppiata. È un’idea, un suggerimento. Ovviamente, nel caso di Udine il percorso formativo sarebbe ancora più necessario per l’allenatore, visto che ricopre la doppia funzione di persona pubblica (rilascia dichiarazioni alla stampa, che gliele pubblica) e di educatore, visto che gestisce un gruppo di giovani uomini, molti ancora dei ragazzi. La formazione non solo sportiva è il nodo nevralgico del sistema sportivo. L’ignoranza combinata all’arroganza, l’arroganza data dall’ignoranza, trova numerossimi esponenti nel calcio, a tutti i livelli.
Il problema riguarda non solo gli appassionati di calcio e chi lo pratica e lo gestisce, e non è purtroppo nuovo. Quante volte abbiamo dovuto sentire affermare che “sì, insomma, se mi dicono che son grasso mica posso accusarli di razzismo, e cosa vogliono questi, un insulto è un insulto, non c’è differenza tra dare del ciccione a uno o dirgli sporco negro”. Un insulto è un insulto, non c’è differenza. Questo è l’assunto di molte persone, anche laureate, anche impegnate nel sociale. Non è verbo che attecchisce solo nelle menti di moltitudini annebbiate da giornate passate con la televisione accesa e l’occhio alle ultime offerte per un nuovo telefono cellulare. È un’idea che ha a che fare con la mancanza di istruzione basica, e di informazione.
Un insulto razzista non è un insulto come un altro. Qualsiasi insulto è un gesto violento, che vuole offedere e urtare chi lo riceve. Ma un insulto personale è un insulto personale, diretto alla persona o al massimo ai suoi familiari. Un insulto che fa riferimento a un’origine, alla provenienza e soprattutto un insulto che usa delle caratteristiche somatiche come il colore della pelle per definire qualcuno (in termini espressamente spregiativi) ha un carico di violenza diverso. Soprattutto, ha una storia che non può essere ignorata. È un insulto che riguarda moltitudini. Riguarda molte persone che possono sentirsi comprensibilmente toccate da questo attacco anche senza riceverlo direttamente. Questa è solo una approssimazione dell’insulto razzista. Un tentativo di mirare a un uditorio dall’udito malfunzionante o parzialmente disconnesso come quello rappresentato dall’allenatore sopracitato. L’insulto razzista è solo una componente, la più immediatamente visibile, del razzismo che pervade la società. Per questo non può essere ignorato.
L’insulto razzista va compreso nel quadro di una società, quella italiana, che ha disconosciuto la sua criminogena storia coloniale e le leggi razziali del Fascismo (quanto spazio hanno questi temi nei manuali di storia in uso nelle scuole italiane?) e che ha chiamato immigrati perché ne aveva e ne bisogno, ma non ha permesso loro e ai loro figli di diventare altro che lavoranti manuali e quando i lavori umili non sono più disponibili o diventano estremamente volatili, lascia loro come destino, spesso, solo l’emarginazione.
È facile dar la colpa a Salvini, alla sua esposizione mediatica, all’arsenale di surreali parabole che infila una dietro l’altra per manipolare la realtà e nel fare degli immigrati, negli stranieri, il capro espiatorio di tutti problemi di questa terra. È vero, non si può negare la pericolosità di simili discorsi. Allo stesso tempo, non va sottovalutata l’importanza della televisione nel dare insistentemente voce a messaggi allucinati e renderli “popolari”. Ma questa è solo una parte della storia. Le parole uscite dal senno dell’allenatore di Udine segnalano un salto di qualità nel razzismo popolare perché identificano una forma di “vittimismo” inedita, almeno in Italia.
Il contesto generale di instabilità economica e sociale (che non è problema esclusivo dell’Italia, va detto, ma trova qui particolare enfasi), i flussi di rifugiati (che fuggono il più delle volte da guerre avviate dall’Occidente), l’idea di un islam necessariamente ostile reiterata a destra e a manca, contribuiscono a creare un tappeto emotivo di insicurezze dove chi è predisposto ad accettare discorsi razzisti ne diventa latore entusiasta e sordo alla ragione. E riesce perfino a inventarsi vittima. Ma vittima di cosa? È questo che è difficile da comprendere. Serve uno sforzo condiviso per arrivare alle sorgenti di ignoranza. Per esempio, gli stessi che si scandalizzano perché un preside di una scuola multietnica mette in discussione l’opportunità di canti natalizi di una sola religione sono i primi ad iscrivere i propri figli in scuole con basse presenze di immigrati. Il pregiudizio è loro, non di chi cerca forme di dialogo che fanno parte della storia di tutte le società, da che mondo è mondo.
Uno sforzo andrebbe anche diretto a comprendere che lo sport, oggi più che mai, va inteso come fenomeno culturale che ha delle implicazioni nel modo in cui vediamo e capiamo il mondo. Il calcio non può essere lasciato a chi non capisce e non è interessato a fare della società un posto migliore per tutti. Parafrasando quanto scrisse C.R.L. James nel suo straordinario studio sul cricket e il post-colonialismo nei Caraibi potremmo chiederci: cosa capisce di calcio chi solo di calcio sa?
Max Mauro è autore de “La mia casa è dove sono felice” (2005). Nel 2016 manderà alle stampe uno studio sul calcio e i giovani di origine immigrata realizzato in collaborazione con il Centro internazionale di studi dello sport (CIES).
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