Di Francesca Spinelli su Internazionale
La morte di una persona è più grave se avviene in Spagna invece che in Marocco? E se invece avviene mezzo metro prima di varcare quel confine? Sono alcune delle domande sollevate dall’inchiesta Reconstructing the Melilla massacre, coordinata dalla redazione di giornalismo investigativo Lighthouse Reports e uscita lo scorso 29 novembre.
In collaborazione con alcune testate europee e con il sito d’informazione marocchino Enass, Lighthouse Reports ha ricostruito meticolosamente i fatti accaduti il 24 giugno 2022 nell’enclave spagnola in territorio marocchino.
Quel giorno di giugno, nel tentativo di entrare a Melilla per chiedere la protezione internazionale, centinaia di persone sono rimaste intrappolate tra uno spiegamento di agenti marocchini e le recinzioni oltre le quali erano schierati gli agenti spagnoli. Sotto una pioggia di lacrimogeni, manganellate e proiettili di gomma, sono morte nella calca almeno 37 persone. Di altre settantasette non si hanno più notizie. Chi era riuscito a superare la linea del confine è stato respinto. Nessuna assistenza medica è stata fornita ai feriti, nonostante la presenza di ambulanze da entrambi i lati della frontiera.
Nella regione non era la prima volta che si verificava una simile strage (non una “tragedia”, non un “incidente”, termini prediletti dalle autorità spagnole e da gran parte dei mezzi d’informazione locali). Il 6 febbraio 2014 circa duecento persone erano partite dalla costa marocchina per cercare di raggiungere a nuoto l’altra enclave spagnola nel nord del Marocco, Ceuta. La guardia civíl aveva risposto sparando lacrimogeni e proiettili di gomma e causando la morte di almeno 14 persone. Di tredici ne conosciamo il nome (Yves, Samba, Daouda, Armand, Luc, Roger Chimie, Larios, Youssouf, Ousmane, Keita, Jeannot, Oumarou, Blaise), una vittima è rimasta anonima. Ma i dispersi sono molti di più. È il “masacre del Tarajal”, dal nome di una spiaggia di Ceuta, commemorato ogni anno da una marcia per la dignità.
Quel giorno del 2014 gli spagnoli hanno imparato una lezione: e così nel giugno scorso a Melilla non si sono sporcati le mani, lasciando che gli agenti marocchini entrassero in territorio spagnolo per riprendere chi era riuscito a passare il confine. “Persone raccolte e gettate via come carcasse, persone con le mani legate dietro la schiena lasciate al sole a morire per le ferite riportate”, dice Daniel Howden, fondatore di Lighthouse Reports. “I vivi e i morti accatastati gli uni sugli altri”.
Dal primo giorno il ministro dell’interno spagnolo Fernando Grande-Marlaska ha dichiarato che non c’era stato “nessun morto sul suolo spagnolo”. Mentiva, come hanno sostenuto i sopravvissuti e come hanno dimostrato inchieste e rapporti, l’ultimo dei quali pubblicato da Amnesty international il 13 dicembre. Howden definisce Reconstructing the Melilla massacre un esempio di accountability journalism: per far sì che qualcuno in Spagna debba rendere conto di quello che è successo “abbiamo cercato di tracciare una linea di demarcazione netta lungo il confine per stabilire se le persone erano state schiacciate e picchiate a morte dal lato marocchino o da quello spagnolo”.
Tra le vittime c’era Anwar, 27 anni, che aveva lasciato il Sudan nella speranza di “migliorare le condizioni di vita” della sua famiglia, come ha raccontato sua nipote ad Amnesty international, e di aiutare la madre malata. Anwar è morto in territorio spagnolo.
Ma a prescindere dall’impatto politico che questa e altre inchieste avranno in Spagna, e a prescindere anche dalle gravissime responsabilità delle forze marocchine, Howden ci tiene a sottolineare una cosa: “Anwar è morto per colpa di un sistema creato a beneficio della Spagna. Il dispiegamento e le azioni delle forze marocchine di quel giorno sono il prodotto di negoziati con le autorità spagnole. I marocchini non hanno nessun interesse a impedire ai richiedenti asilo africani di entrare a Melilla. E la Spagna riceve fondi dall’Unione europea per finanziare le sue operazioni alla frontiera. Melilla è una frontiera europea, le persone cercano una protezione nell’Ue, quindi questa è una vicenda europea, indipendentemente dal fatto che le persone siano morte o meno un metro oltre quella che di fatto è una linea arbitraria” (nonché un retaggio del passato coloniale della Spagna, che rifiuta di restituire le due enclave al Marocco).
C’è un’altra bugia di Grande-Marlaska su cui occorre soffermarsi, perché riflette uno slittamento linguistico e politico preoccupante a livello europeo. Grande-Marlaska ha dichiarato a più riprese che a Melilla la guardia civíl si è dovuta difendere da un “attacco violento”, versione smentita da un rapportopubblicato già a luglio dall’Association marocaine des droits humains. Dopo la crisi al confine tra Polonia e Bielorussia nel 2021, i discorsi di governi e istituzioni europee sui migranti si sono ulteriormente induriti attraverso la scelta deliberata di presentarli come “assalitori”, manipolati o meno da stati terzi. Dopo i trafficanti e le ong, ora i governi europei includono tra i nemici da combattere anche i profughi, e non lo fanno solo a parole. Nella proposta di regolamento sulla fantomatica “strumentalizzazione della migrazione”, elaborata dopo la crisi con la Bielorussia, la migrazione è stata associata – per la prima volta in un testo legislativo – al termine “attacco”.
Se approvato, il regolamento permetterebbe di derogare al diritto d’asilo in determinate circostanze e questo, per riprendere il titolo di un comunicato firmato da oltre ottanta organizzazioni, sarebbe “il colpo di grazia per il sistema europeo comune di asilo”. L’8 dicembre i ministri dell’interno europei riuniti a Bruxelles non sono riusciti a trovare un accordo sulla proposta, che la presidenza ceca sperava di far approvare entro la fine dell’anno. In un commento, l’European council on refugees and exiles (Ecre) auspica che la proposta sia ritirata, ma dipenderà dalle priorità della Svezia, prossimo stato a esercitare la presidenza del consiglio.
Mentre “attacco” si fa strada nel lessico istituzionale, c’è una parola che non si troverà mai nei discorsi e nei testi ufficiali sulle politiche migratorie e d’asilo europee. Ma è la parola che collega l’uccisione di Anwar al regolamento sulla strumentalizzazione, le bugie di Grande-Marlaska ai centri di detenzione segreti in Bulgaria, Croazia e Ungheria al centro dell’ultima inchiesta coordinata da Lighthouse Reports (in Italia è uscita su Domani). È la parola razzismo.
Come osserva la rete Picum (Platform for cooperation on undocumented people), l’impegno espresso dall’Unione europea attraverso il suo Piano di azione contro il razzismo, lanciato nel 2020, si ferma dove cominciano le sue politiche migratorie e d’asilo. I controlli esercitati sulla circolazione delle persone, spiega il ricercatore Luke de Noronha, citato nell’analisi di Picum, infatti “producono e riconfigurano distinzioni e gerarchie razziali (anche se non formulate in termini razziali)”. In un recente commento pubblicato su OpenDemocracy, la ricercatrice Iriann Freemantle parla di “terrorismo razziale contemporaneo, volto a dissuadere i migranti non solo dal muoversi fisicamente, ma anche dal desiderare una vita migliore”.
Se le sue radici affondano nel passato coloniale europeo, il razzismo che oggi si esprime nella violenza con cui l’Ue tratta persone originarie di alcuni paesi va inquadrato nel suo contesto storico. Secondo il ricercatore Fabian Georgi, “l’attuale recrudescenza del razzismo in Europa può essere interpretata come una controreazione a una serie di sconfitte politiche” subite dalla destra conservatrice. La prima è la diversificazione delle società europee “sul piano etnico e culturale” rispetto agli anni novanta, diversificazione che è andata di pari passo con l’affermarsi delle lotte antirazziste e la messa al bando quasi unanime del razzismo “vecchio stile e diretto” degli anni ottanta. La seconda sconfitta è stata la scelta – vissuta come un tradimento dalla destra – di alcuni attori neoliberali di promuovere “una retorica nuova e meritocratica sulla diversità e il multiculturalismo, sottolineando i benefici economici e altri effetti positivi legati alla migrazione”.
La “lunga estate della migrazione”, come alcuni studiosi chiamano la “crisi dei rifugiati” del 2015, ha accelerato questa controreazione e oggi, in un contesto di crisi sociale ed economica, una parte sempre più ampia della popolazione europea si riconosce nei programmi populisti della destra e dell’estrema destra, in cui s’intersecano razzismo, autoritarismo e nazionalismo ultraconservatore.
Eppure, diversamente da quanto succede negli Stati Uniti, “in Europa parlare di razza e di uguaglianza spesso è considerato inopportuno”, osserva Howden. A molti europei non piace ammetterlo, ma se a Melilla le persone sono picchiate e uccise “e le loro storie ricevono così poca attenzione è per via della loro provenienza e del colore della loro pelle”. Se il diritto d’asilo cade a pezzi e il rispetto dei diritti fondamentali è diventato facoltativo agli occhi di gran parte dei governi europei, è perché molti di quei leader si considerano superiori ad Anwar. E ora che i profughi hanno la pelle più scura considerano superato un quadro giuridico nato per proteggere dei profughi bianchi nel secondo dopoguerra.
Il 14 dicembre, in un’intervista al settimanale belga Knack, la ministra dell’ambiente delle Fiandre, Zuhal Demir, ha messo sullo stesso piano richiedenti asilo e suini, dichiarando che nelle Fiandre non c’è posto né per i primi né per i secondi. Da mesi il suo partito, la formazione nazionalista N-Va, si contende il primo posto nei sondaggi con il partito di estrema Vlaams Belang. Insieme raccolgono quasi il 48 per cento delle preferenze nelle Fiandre.
È un esempio tra tanti dello sdoganamento di discorsi, pratiche e politiche razziste in tutta l’Unione europea. Ma i movimenti di denuncia si moltiplicano e sempre più spesso si alleano su scala transnazionale, come dimostra la campagna “Unfair. The Un refusal agency”, che il 9 e il 10 dicembre ha portato fino a Ginevra le rivendicazioni di chi è intrappolato in Libia e negli altri paesi ai quali l’Ue appalta le sue politiche di respingimento. Alle persone presenti alla conferenza stampa, David Yambio, portavoce di Refugees in Libya, si è rivolto con queste parole: “Siamo pieni di storie da raccontare, pieni di incubi da scrollare via dai nostri corpi. Ma voi, siete pronti ad accoglierli? Siete pronti a lottare per un mondo migliore?”.
Foto in evidenza Javier Bernardo, Ap/LaPresse (su Internazionale)
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