Di Gianfranco Schiavone su Altreconomia
Tutti si interrogano se il ritorno del governo dei talebani in Afghanistan produrrà o meno una grave crisi migratoria in Europa; per l’Afghanistan questo ritorno dei talebani avvenuto dopo 20 anni di conflitto interno è un cambiamento profondo e probabilmente di lunga durata. Se nell’ultimo decennio larga parte degli afgani che sono fuggiti dal Paese lo hanno fatto per sottrarsi a una situazione di conflitto e violenza generalizzata, d’ora in poi chi lascerà il Paese lo farà prevalentemente per il fondato timore di subire persecuzioni per ragioni politiche, etniche, religiose o di appartenenza a un dato gruppo sociale, rientrando a pieno titolo nella definizione di rifugiato della Convenzione di Ginevra del 1951.
I Paesi europei, salvo eccezioni positive tra cui l’Italia, dove il tasso di riconoscimento di una forma di protezione ai cittadini afghani ha sempre superato il 90%, nell’ultimo decennio hanno escogitato ogni stratagemma possibile per evitare di riconoscere protezione (anche quella sussidiaria) agli afghani fingendo che il Paese fosse pacificato o applicando in modo distorto il criterio dell’area interna sicura, dichiarando appunto sicure zone dell’Afghanistan che non lo erano affatto. Come ha ben evidenziato l’Istituto di studi di politica internazionale (Ispi), nei 12 anni compresi tra il 2008 e il 2020, in Europa sono state presentate solo 600mila domande di asilo da parte dei cittadini afghani; poco meno della metà sono state rigettate con circa 70mila persone rimpatriate, tra cui non meno di 15mila donne.
In alcuni Paesi europei della rotta balcanica, come Croazia e Bulgaria, il tasso medio di riconoscimento di uno status di protezione agli afghani è inferiore al 10% mentre è di poco più del 25% in Slovenia e del 55% in Grecia. Con l’arrivo al potere dei talebani un elevato numero di cittadini afghani, non vedendo alcuna prospettiva di vita, deciderà di lasciare il Paese in tutti i modi possibili. Nel farlo incontreranno però ostacoli insormontabili in quanto molti sono i Paesi che si frappongono sulla loro strada prima di arrivare in Europa, ragione per cui la previsione di una seria crisi di arrivi in Europa pare almeno al momento piuttosto azzardata.
I confinanti Pakistan e Iran, che già complessivamente ospitano più di 2,5 milioni di rifugiati afghani, ostacoleranno altri ingressi e comprimeranno ulteriormente il livello, già minimo, di protezione concesso. La Turchia, a sua volta, aumenterà il ricatto verso l’Ue mentre in parallelo completerà la costruzione del muro con l’Iran (oggi di 160 chilometri) ed è probabile un’escalationdella tensione con la Grecia che ha appena completato il suo muro lungo il confine turco. Non si intravedono per ora segnali che l’Europa voglia tornare a rispettare il diritto di chiedere asilo alle proprie frontiere o attuare un programma pluriennale di reinsediamento dei rifugiati afghani di ampie dimensioni, fermando la propria folle corsa alla delega/esternalizzazione a Stati terzi dei propri obblighi di protezione solennemente proclamati ma pervicacemente violati.
Molto più probabilmente, i cittadini afghani (il gruppo più numeroso di rifugiati al mondo insieme ai siriani) rimarranno senza protezione ancor più di quest’ultimi, intrappolati nel loro Paese ed esposti ad ogni genere di persecuzione da parte di un regime atroce o verranno chiusi nei Paesi confinanti, privi di una reale protezione giuridica e senza prospettive per il futuro. Se così dovesse accadere, poco rimarrà di quel diritto, sancito dalla Convenzione di Ginevra, che nacque 70 anni fa sulle macerie della seconda guerra mondiale, insieme alle attuali democrazie, tra cui la nostra. La posta in gioco non è solo il futuro dell’Afghanistan.
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