Di Marina Nasi su Valigia Blu
Tra le varie forme di discriminazione, quella su base linguistica non ha avuto finora molta risonanza, penalizzata tanto dalla difficoltà di isolarla da altre istanze, quanto dai diversi modi in cui può presentarsi. Negli ultimi tempi però il dibattito è aumentato esponenzialmente, e sempre più si parla di “linguistic discrimination” e delle sue varie sfumature e accezioni: linguistic profiling, slam ban, glottofobia, accent discrimination, accentism, ethnic accent bullying, linguistic stereotyping, razzismo linguistico.
La discriminazione linguistica consiste nel giudicare e trattare negativamente qualcuno sulla sola base dell’uso del suo linguaggio, che si tratti di accento, pronuncia o anche uso di vocabolario e sintassi. In pratica, si tratta degli stereotipi e dei bias che associamo, spesso inconsapevolmente, al modo di parlare di una persona. E per le molte persone che si esprimono in modo dissonante da quella che è percepita, spesso arbitrariamente e sulla base di una serie di privilegi, come la norma, questi possono avere un impatto forte sul lavoro, all’università, nella vita sociale, addirittura nel cercare casa. Per esempio, uno studio inglese riporta una candida evidenza: nei colloqui di lavoro, chi parla con un accento regionale e/o working class ha meno possibilità di essere considerato. Lo studio evidenzia anche questo tipo di pregiudizio è più comune da parte degli over 40.
La lingua che parliamo è inevitabilmente legata alla nostra identità ed esposta a interpretazioni, in quanto riflesso di provenienza, cultura, livello di scolarizzazione, origine geografica. Il problema è che queste interpretazioni possono essere tanto rapide quanto pregiudizievoli, e incidere pesantemente sul modo in cui è percepita e trattata una persona. Questo è particolarmente vero, per esempio, nel caso dell’Inglese, lingua dominante per eccellenza, e piuttosto dibattuto nel Regno Unito, dove è forte il collegamento fra lingua e status sociale, e dove la cosiddetta Received Pronunciation (RP) è tuttora percepita da molti come la pronuncia ideale della classe dirigente, o comunque come l’accento a cui aspirare. Un vero e proprio accento sociale.
La definizione di Received Pronunciation è stata codificata nel 1926 dal fonetologo Daniel Jones, nella seconda edizione dell’English Pronouncing Dictionary. Ma il concetto era già stato introdotto nell’edizione originale del 1917, che lo definiva “Public School Pronunciation”: è infatti nelle scuole private (che in Inghilterra sono chiamate Public Schools) che viene appreso questo accento. E nonostante abbia assonanze soprattutto con le pronunce del Sud e in particolare con quelle di Londra, Oxford e Cambridge, è considerato una sorta di accento neutro e non regionale, il frutto dell’innalzamento culturale e sociale offerto dalle migliori scuole. Anche se non si tratta esattamente di sinonimi, la RP è spesso associata al cosiddetto “Queen’s English”, ovvero l’inglese parlato dal membro “più alto” della società.
Inserendo “Received Pronunciation” su un motore di ricerca, tra le prime immagini compare quella di Lucy Bella Simkins, influencer ed edutuber da oltre sei milioni di follower con il suo canale English with Lucy, attraverso i cui popolarissimi video insegna, affina e allena il “Beautiful British English”. L’anno scorso, l’insegnante ventisettenne è stata al centro di un’aspra polemica social esplosa dopo la pubblicazione di un video (poi rimosso) in cui elencava dieci termini usati in contesti accademici o lavorativi, spiegando come non andassero pronunciati se si voleva “suonare intelligenti e professionali”. Già in precedenza, un’altra video-lezione dell’insegnante del Cambridgeshire, entusiasticamente ripresa dal Daily Mail, spiegava gli errori linguistici da evitare per “non sembrare stupidi”. Dopo i commenti negativi di diversi linguisti, tra cui Rob Drummond dell’Università di Manchester, Simkins ha prodotto un video di scuse e si è presa una pausa prima di riprendere a pubblicare, in cui oggi è più attenta a mostrarsi aperta alle varietà regionali.
Oggi nella popolosa comunità dei docenti di inglese per stranieri (ELS, English as a Second Language) si discute molto di come evitare di identificare la lingua ideale al privilegio bianco, e di trovare un compromesso tra l’insegnamento di una lingua standard e l’inclusione tanto degli accenti regionali quando del contributo dato al “global english” da parlanti indiani o nigeriani (sia in India sia in Nigeria l’Inglese è lingua ufficiale). E in rete spuntano progetti come The accentism project, archivio aperto digitale di episodi di discriminazione linguistica, o articoli come questo di Refinery 29, in cui la “equality reporter” Jasmine Andersson racconta di come il suo accento dello Yorkshire l’abbia fatta sentire mortificata e sminuita all’Università.
L’ultimo episodio però è arrivato sulle pagine del Guardian, che ha reso pubblica una lista di parole proibite circolata in una scuola media di Londra Sud, la Ark All Saints Academy. Nella lista nera di cosa non pronunciare in classe, comparivano quasi soltanto modi di dire collegabili al cosiddetto British Black English, o patois, cioè l’inglese parlato dalla foltissima comunità afrocaraibica. Incidentalmente, la Ark All Saints si trova a Clarkenwell, quartiere multietnico con una lieve prevalenza di abitanti afrodiscendenti. La preside della scuola si è giustificata dicendo che le espressioni bandite erano state selezionate perché trovate in molti compiti dei ragazzi, e che l’idea era quella di incoraggiare gli studenti a esprimersi in modo più chiaro e accurato. Ma secondo il senior lecturer Marcello Giovanelli del ClaRA (Centre for Language Research at Aston) di Birmingham, si tratta di un episodio indicativo di un problema più complesso:
“Anche in questo periodo in cui c’è tanta attenzione a non discriminare, troviamo ancora stranamente accettabile l’idea di discriminare base alla lingua. Se dici che c’è un inglese buono e uno cattivo, implicitamente affermi che alcune persone vanno bene e altre no. Questa forma di limitazione linguistica, questa sorta di ‘slang ban’ (la messa al bando dello slang, ndr), crea problemi alle persone riguardo il modo in cui si percepiscono, impatta sul loro senso di sicurezza, sul pensarsi all’altezza di qualcosa. Di fatto è un tentativo di controllare il linguaggio, di buttare via quello che sembra poco utile.”
Non è la prima volta che in Inghilterra viene promosso un certo tipo di inglese percepito come norma, come l’ideale da perseguire per raggiungere innalzamento sociale e successo accademico. Un famoso ministro conservatore degli anni ’80, Norman Tebbit, è rimasto celebre per avere associato il presunto declino dell’inglese corretto al proliferare del crimine. Prosegue Giovanelli:
“È un fenomeno che va a cicli, che si ripete, e guarda caso sempre in presenza di governi conservatori. Norman Tebbit incoraggiava a parlare in un certo modo, a riprendere le gare di grammatica. Apparentemente sembra un modo di aiutare tutti gli studenti ad innalzare il loro livello, ma di fatto è una forma di controllo: la si incasella come tentativo di migliorare tutti, ma in realtà sposta la responsabilità sociale dal governo alla lingua, al modo in cui una persona parla. Come dire: «Non vivi in un contesto svantaggiato per via delle scelte politiche, ma per come pronunci l’inglese»”.
Se la scuola e la società sembrano ancora legate a un’idea rigida e normativa, per quanto in evoluzione e ora anche in discussione, di quella che dovrebbe essere la lingua corretta da usare, la letteratura va in un’altra direzione, come dimostra il successo di scrittrici come Bernardine Evaristo. Evaristo ha vinto il Booker Prize per Ragazza, donna, altro, storia di 12 personaggi quasi tutti femminili e afrodiscendenti, e la ricchezza espressiva dei suoi registri stilistici mescola poesia, slang e tradizione orale. Anche nel precedente romanzo Mr Loverman, ambientato nella comunità creola di Londra, l’autrice inglese di origine nigeriana si era immersa nello studio del modo di parlare e degli “errori grammaticali” del patois anglo-caraibico. Usando molte di quelle espressioni che probabilmente figurerebbero nella lista nera della Ark All Saints.
Negli Stati Uniti la situazione non è troppo diversa: sono frequenti gli annunci di lavoro che richiedono un “accento neutrale” e a fare le spese della discriminazione linguistica sono soprattutto gli appartenenti a minoranze etniche. Il problema non è nuovo: ha fatto scuola lo studio del 2000 di John Baugh della Stanford University, in cui Baugh individuava la profilazione razziale su base dell’accento tanto nelle telefonate ad agenti immobiliari quanto nelle aule di tribunale.
Vittime di commenti tra parodia e bullismo sono anche gli accenti degli Stati del Sud. E addirittura a Hollywood si discute di come gli attori con un accento, specie se straniero, siano sempre limitati dal typecasting.
Sempre in ambito cinematografico, la commedia nera del 2018 Sorry to bother you ha come protagonista (interpretato da Lakeith Stanfield) l’addetto di un call center di telemarketing che scopre il modo migliore per smettere di essere respinto dai clienti e iniziare a fare affari: suonare bianco. Il concetto di “voce da bianco”, del resto, era già stato esplorato dal protagonista di Blackkklansman di Spike Lee. E non c’è troppo da ridere: il cosiddetto “code switching”, ovvero la necessità di rimodulare il proprio codice espressivo e comunicativo per farsi accettare dal gruppo dominante, è un fenomeno presente soprattutto tra gli african american ed è stato associato a problemi di stress e salute mentale.
A testimonianza del fatto che il fenomeno è globale, alcune settimane fa in India è bastato pubblicare su Twitter il commento inopportuno di un addetto al call center di Zomato (la più importante app di delivery del subcontinente, presente anche in Italia ma solo a Roma e Milano) per fare esplodere un caso nazionale. I fatti: un cliente del Tamil Nadu contatta l’assistenza di Zomato per un problema di consegna, l’addetto chiama il ristorante ma non riesce a interagire con nessuno del personale perché tutti parlano solo in lingua Tamil; a questo punto l’assistente liquida la faccenda dicendo al cliente che tutti in India dovrebbero parlare almeno un po’ della «lingua nazionale», l’Hindi. In realtà l’India ha 28 lingue ufficiali, né l’Inglese né l’Hindi sono obbligatori, e dopo la pubblicazione su Twitter di questo piccolo scambio moltissimi utenti hanno protestato, con tanto di hashtag #boycottZomato. L’azienda ha già pubblicato le sue scuse, in Hindi e in Tamil.
Quello che dall’esterno potrebbe essere superficialmente liquidato come l’incidente da poco che causa una reazione sproporzionata, però, va contestualizzato nell’attuale situazione politica indiana, in cui la discriminazione su base linguistica ha un posto rilevante. Come spiega Rita Cenni, corrispondente per l’Ansa sull’India:
«L’episodio di Zomato si inserisce all’interno di un problema molto serio. L’attuale governo, così estremista sull’induizzazione del Paese, fa di tutto per imporre religione e cultura Indu, così come la lingua Hindi. Quindi è vero che esiste una grande discriminazione nei confronti delle minoranze. L’Indi è parlato solo nel Centro-Nord, ma tutti gli altri stati rivendicano con orgoglio le proprie lingue nazionali. Il partito attualmente al governo sta cercando di portare l’India, che era sempre stata un melting pot di lingue, etnie e religioni, tutta di un solo colore, tutti Indu, cosa che in questo paese non è mai esistita».
E in Italia? Da noi ci sono diversi ordini di problemi. C’è la profilazione linguistica, che porta molte persone con accenti stranieri a venire respinte alla prima telefonata da agenti immobiliari, senza neanche avere la possibilità di vedere una casa o di farsi conoscere. E ci sono le difficoltà di inserimento scolastico per alcuni studenti di origine estera, anche se nati qui. Ne parla uno dei pochi studi nostrani sul tema, che ha preso in esame alcuni istituti scolastici toscani e l’atteggiamento nei confronti degli studenti che parlano un Italiano “non nativo”, in particolare quelli appartenenti alla comunità sino-italiana. Lo studio evidenzia la presenza significativa di pregiudizi nei confronti di chi parla italiano con accento cinese, da parte tanto di professori quanto di allievi. Inutile dire che se da noi il problema non è ancora sotto i riflettori è soltanto perché siamo più indietro dei paesi citati in termini di multilinguismo e multiculturalismo. Nel frattempo, però, vale la pena di domandarsi se prendere in giro una persona per come parla l’italiano, o anche l’inglese, sia una cosa sana da fare.
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