Di Valerio Cataldi, presidente Associazione Carta di Roma
Ci sono alcuni giornali ed alcuni giornalisti, a cui la parola etica fa venire l’orticaria solo a sentirla. Sono quelli che pensano che la libertà di parola sia libertà di seminare odio, di scrivere fatti che nulla hanno a che vedere con la realtà e che esistono solo nella logica della propaganda di certa politica. Sono quei giornalisti che usano l’articolo 21 della costituzione come un alibi e che pensano li autorizzi a scrivere quello che vogliono senza dover fare attenzione al rispetto delle regole, della deontologia, dell’etica professionale. Sono quelli che di mestiere fanno gli “spaventatori”, quei giornalisti che, in effetti, con il giornalismo e con il racconto dei fatti hanno davvero poco a che fare.
Noi di carta di Roma pensiamo, invece, che Etica sia una parola bellissima che rende il giornalismo un mestiere nobile, pensiamo che offra alla professione uno strumento di civiltà. Etica significa rispetto e noi siamo convinti che il giornalismo debba essere fondato innanzitutto sul rispetto, della verità sostanziale dei fatti così come della dignità delle persone che raccontiamo.
Facciamo parte di un’ampia comunità che condivide il concetto di civiltà giornalistica, quella che ci ostiniamo a promuovere e a difendere. Quella scritta nelle carte deontologiche che spiegano che i bambini vanno tutelati, che le donne vanno rispettate, che le scelte sessuali sono un fatto intimo, che la parola invasione serve a raccontare una guerra e non va bene se riferita a qualche migliaio di persone che cercano disperatamente di sopravvivere. Ci sono delle regole che sono fin troppo banali, ma che vanno costantemente ribadite perché sono costantemente sotto attacco.
Noi facciamo questo: promuoviamo quelle regole. Recentemente abbiamo firmato un protocollo con Unar per una serie di attività formative. Non c’è davvero niente di strano e tantomeno di segreto, eppure un giornale ha deciso di scriverne raccontandolo nel titolo come uno scandalo: “il governo vuole rieducare i giornalisti”. Sembra chissà quale atto di prepotenza, poi si legge il sottotitolo e l’aggressività si smonta da sola: “Palazzo Chigi finanzia corsi per sensibilizzare ai temi della discriminazione etnica e sessuale”. C’è davvero qualcosa di sbagliato?
Quando abbiamo letto il resto dell’articolo con il direttore di Unar, Triantafillos Loukarelis, abbiamo pensato che nonostante quel titolo allarmistico, quel pezzo che voleva aggredire, in realtà sembrava fare pubblicità ai corsi di formazione. Insomma, un attacco sì, ma congegnato malissimo e fallito miseramente.
La rieducazione è un concetto che non mi appartiene, ma gli suggerirei di provare ad istituire l’albo degli spaventatori così che possano farsi i loro corsi di formazione e almeno imparare a spaventare con una qualche efficacia. Ma immagino sia un’idea troppo estrema.
La sola cosa che so per certo è che gli spaventatori non dovrebbero avere il privilegio di definirsi giornalisti, fanno un altro mestiere, non certo il nostro che è il mestiere più bello del mondo.