Su Osservatorio DIRITTI
Le giornate mondiali, al di là del loro oggetto specifico, sono un’occasione per fare il punto della situazione. In occasione di questa Giornata internazionale dei migranti 2021, il dato complessivo ci dice che il 96,4% delle persone continua a vivere dove è nato, mentre a spostarsi è il 3,6%, circa una persona su trenta, come sottolinea l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) nell’ultimo rapporto mondiale sulle migrazioni (World Migration Report), relativo alla situazione dei migranti nel 2020.
In dati diffuso rivelano, più nel dettaglio, che sono 281 milioni nel mondo le persone che vivono in un Paese diverso da quello di nascita, tre volte di più che nel 1970, quando la popolazione totale era circa la metà di quella odierna.
Allo stesso tempo, ciò ha significato anche un aumento consistente delle rimesse (il denaro inviato nei Paesi di origine): dai 126 miliardi di dollari nel 2000, ai 702 miliardi del 2020. Un valore inferiore del 2,4% rispetto all’anno precedente, a causa anche del Covid-19.
La pandemia ha influito sulla libertà di movimento. Da un lato chiusure delle frontiere, isolamento e restrizioni hanno reso più difficile spostarsi: secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), nel 2020 11,2 milioni di persone sono state costrette a lasciare per la prima volta il proprio Paese (mentre sono 82,4 milioni in totale). Si tratta di un milione e mezzo di persone in meno rispetto a quanto prospettato prima della pandemia (la stima dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni è di 2 milioni in meno).
Allo stesso tempo il Covid-19 ha reso più difficile, a chi avrebbe voluto e potuto farlo, tornare nella terra d’origine. Sempre secondo l’Unhcr, il loro numero continua a diminuire: sono stati 251 mila, il terzo valore più basso registrato negli ultimi dieci anni.
L’emergenza sanitaria ha influito negativamente anche sulle procedure di accoglienza e riconoscimento: sfollati, rifugiati e richiedenti asilo sono stati in molti casi bloccati alle frontiere o nei centri di accoglienza.
Le condizioni di vita dei lavoratori migranti, in particolare di quelli attivi nel settore informale e nell’assistenza sanitaria, sono peggiorate anche a causa delle carenze dei sistemi sanitari e di welfare: lo evidenzia il Rapporto 2020-2021 di Amnesty International, relativo a 149 Stati e dedicato anche alla violenza di genere e alla repressione del dissenso. Ad essere colpiti maggiormente, scrive l’organizzazione, sono stati i gruppi più vulnerabili, tra cui donne e rifugiati, tradizionalmente discriminati dalle politiche dei leader mondiali.
Non bisogna dimenticare però gli effetti sulle migrazioni di altre condizioni, già note ma non per questo meno influenti. Come le dinamiche geopolitiche: mentre la guerra costringe molti ad abbandonare i propri territori, le tensioni fra Paesi mettono in pericolo la cooperazione internazionale, scrive ancora l’Unhcr.
Anche gli eventi climatici estremi, i disastri e le trasformazioni ambientali continuano a colpire milioni di persone: in particolare Africa subsahariana e India sono vittime di una siccità prolungata, mentre ci sono state tempeste tropicali devastanti nei Caraibi, in Africa meridionale e nel Pacifico, oltre a incendi catastrofici in California e Australia, riporta ancora l’organizzazione in difesa dei diritti umani.
Osservatorio Diritti ha raccontato a più riprese quello che sta avvenendo lungo i principali scenari relativi alle migrazioni. Ultimi, in ordine tempo, sono gli approfondimenti relativi alla situazione alla frontiera fra Polonia e Bielorussia, dove migliaia di persone sono costrette a rimanere accampate al confine a temperature sotto lo zero, e la Rotta balcanica (con i migranti che restano bloccati, per esempio, in Bosnia cercando di evitare la violenza della polizia croata).
Ma le situazioni critiche sono un po’ in ogni parte del mondo, dall’Italia(leggi anche I centri di permanenza per il rimpatrio sono «i buchi neri del nostro Paese») all’America Latina (leggi anche Messico, migranti bloccati a Tapachula: nessuno deve arrivare negli Usa), ai massicci movimenti interni all’Africa o in Asia, giusto per fare altri esempi.
Sempre in Europa, secondo il Progetto sui migranti scomparsi dell’Oim, negli ultimi due anni il numero di morti e dispersi nel tentativo di raggiungere la Spagna è quasi quintuplicato, passando da 202 nel 2019 a 937 nel 2021. In questo senso si può parlare di «ritorno della rotta Atlantica».
Il fenomeno è dovuto a una serie di fattori quali, tra l’altro, «le variazioni in termini di permeabilità delle diverse rotte, soprattutto del Mediterraneo occidentale dalla seconda metà del 2019», all’«allentamento degli sforzi di cooperazione nel controllo della costa dell’Africa occidentale» e all’«aumento dell’instabilità politica ed economica e la situazione di conflitto presente in alcuni Paesi di origine dell’emigrazione subsahariana», come scritto nel Dossier Statistico Immigrazione 2021 del Centro Studi e Ricerche Idos (in collaborazione con il Centro Studi Confronti e l’Istituto di Studi Politici San Pio V).
Sempre l’Oim, a morire nel 2021 nel Mediterrano sono state 1.665 persone (quasi 23 mila dal 2014), 121 quelle in viaggio verso altri Paesi europei, 1.126 verso il continente americano, 1.254 verso l’Africa, 89 verso l’Asia occidentale e 249 verso il resto di questo Continente.
Andando a vedere cosa accade nel continente americano, gli Stati Uniti sono una meta tradizionale di coloro che fuggono da Paesi dell’America Latina in crisi economica e politica. Un recente e toccante reportage del National Geographic, testimonia il viaggio degli appartenenti alla comunità Lgbt in cerca di protezione e riporta i respingimenti al confine con il Messico. Il racconto mostra anche che fugge dal Venezuela verso la Bolivia e i cittadini del Guatemala e del Salvador in fuga dalla fame.
Anche l’Unicef il 7 dicembre ha lanciato un’appello per richiamare l’attenzione sull’America Latina e i Caraibi: nel 2022 è previsto che saranno 3,5 milioni i bambini costretti a spostarsi dal proprio Paese, in aumento del 47% rispetto al 2021. Un numero del tutto inedito, ha dichiarato il direttore regionale, Jean Gough.
Le migrazioni, naturalmente, non riguardano soltanto gli spostamenti tra Stati diversi. «Stiamo assistendo a un paradosso mai visto prima nella storia umana», ha dichiarato il direttore generale dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, António Vitorino. «Mentre miliardi di persone sono state messe in ginocchio dal Covid-19, altre decine di milioni sono state costrette a spostarsi all’interno del proprio stesso paese».
Secondo il Centro di monitoraggio delle migrazioni interne, un ente istituito nel 1998 dal Consiglio norvegese per i rifugiati, nel mondo sono 55 milioni gli sfollati interni, 48 dei quali a causa di conflitti e violenze e 7 in seguito a disastri. E 40.5 milioni di loro hanno subito questa condizione per la prima volta proprio nel 2020.
Guardando al nostro Paese, secondo i dati del ministero dell’Interno, nel 2021 il numero di persone arrivate sulle nostre coste dal Mediterraneo è circa raddoppiato rispetto all’anno precedente: 63.062 (il 23% dei quali dalla Tunisia), rispetto ai 32.919 del 2020, secondo i dati aggiornati al 14 dicembre 2021.
Lo stesso giorno la fondazione Migrantes (organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana) ha presentato il suo quinto rapporto su richiedenti asilo, rifugiati e migrazioni forzate. Nei primi undici mesi del 2021, a perdere la vita in mare mentre cercavano di raggiungere il nostro Paese sono state 1.559 persone (nel 2020 erano state 1.448).
Il rapporto registra anche un calo in tutto il continente europeo rispetto al 2019 sia degli arrivi “irregolari” di migranti e rifugiati (-12%) sia dei richiedenti asilo (417 mila persone, un terzo in meno).
La Giornata internazionale del Migrante è stata istituita nel 2000 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. La scelta del 18 dicembre si deve al fatto che quello stesso giorno di dieci anni prima (1990) l’organismo aveva approvato la Convenzione Internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, per prevenirne lo sfruttamento e stabilirne le condizioni minime di riconoscimento e accettazione a livello globale.
La Convenzione è il risultato dell’elaborazione di un apposito gruppo di lavoro istituito nel 1979 (con la Risoluzione 34/172). Entrata in vigore nel 2003, essa non è stata ancora ratificata dall’Italia.
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