di Simone Alliva su L’Espresso
Nello stesso Paese che applaude Paola Egonu, le forze dell’ordine fermano il calciatore del Milan solo perché nero. L’identificazione etnica è un problema ma non lo raccontiamo. «Rappresentare la comunità in maniera diversa, è l’unico modo per rompere i pregiudizi che alimentano il razzismo»
Sembra il fermo immagine di un video che arriva dagli Stati Uniti. C’è un uomo nero che viene fermato dalla polizia mentre si trova sulla sua auto, mani ben in vista. L’uomo viene perquisito da un poliziotto mentre un’altra agente punta la propria pistola all’interno dell’auto, dove si trova un’altra persona.
A un certo punto un terzo poliziotto si avvicina al collega che sta effettuando la perquisizione e gli rivela l’identità del perquisito. Termine dell’operazione.
Siamo a Milano, pieno centro. L’uomo è il calciatore del Milan, Tiémoué Bakayoko.
«Nella stessa Italia in cui si elogia Paola Egonu, avviene la profilazione razziale per Tiémoué Bakayoko (e molte altre persone non famose il cui nome non è altisonante, benché condividano la stessa melanina)” è il commento secco di Oiza Queens Day Obasuyi, ricercatrice e giornalista – Ci troviamo di fronte a un caso di profilazione razziale confermata dal fatto che la polizia pensava che Bakayoko fosse coinvolto in una sparatoria/rissa avvenuta molto prima tra cittadini di origine africana».
Con profilazione razziale si indica la pratica delle forze dell’ordine di procedere a operazioni di controllo o sorveglianza mosse soprattutto da pregiudizi fondati su colore della pelle, lingua, nazionalità. L’accusa non è mossa soltanto dalla saggista Obasuyi. Sui social molti utenti hanno criticato l’operato degli agenti accusandoli anche di “razzismo”, o al contrario, di “mollare tutto” appena scoperto che il perquisito era un calciatore.
«Sono commenti fuori luogo – spiegano in Questura – il controllo è scattato perché Bakayoko e l’altro passeggero corrispondevano perfettamente, per un caso, alle descrizioni, e ovviamente è terminato quando ci si è resi conto di aver fermato una persona che non c’entrava”. Secondo quanto precisato dalla Polizia di Stato, infatti, la notte precedente c’erano state risse, anche con colpi d’arma da fuoco (poi rivelatasi non di pistola) tra stranieri, e si cercava un suv scuro con a bordo due uomini, uno dei due di colore con una maglietta verde»
Non è la prima volta. A fine giugno 2021, intorno all’alba, un gruppo di ragazzi e ragazze poco più che maggiorenni e per la maggior parte afrodiscendenti si trovava fuori dal McDonald’s di Piazza XXIV Maggio, a Milano. All’improvviso sul posto era arrivato un gran dispiegamento di carabinieri, alcuni in tenuta antisommossa. Ne è seguito un intervento di identificazione piuttosto violento, documentato da diversi video pubblicati sui social.
«L’identificazione etnica è poco trattata in Italia ma è reale. Molto spesso le persone nere vengono fermate dalla polizia senza aver commesso nulla, camminano per strada, viaggiano in macchina e vengono fermate perché sono nere». A spiegarlo a L’Espresso è Triantafillos Loukarelis ex Direttore generale dell’UNAR (Ufficio Antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio dei Ministri) e presidente del comitato direttivo Antidiscriminazione, diversità e inclusione del Consiglio d’Europa.
«Non facciamo tutta l’erba un fascio rispetto ai corpi di polizia ma è una questione che esiste. A livello mondiale si è creata una certa sensibilità e anche voglia di affrontarla, pensiamo al movimento Black Lives Matter. La Commissione Europea con il nuovo piano di azione europeo contro il razzismo chiede agli Stati membri azioni specifiche per contrastare l’identificazione etnica. L’UNAR da un paio di anni sta lavorando a un piano nazionale italiano e abbiamo previsto. in collaborazione con 120 associazioni in Italia, un lavoro specifico che tramite l’OSCAD attivi corsi di formazione presso tutte le forze dell’ordine affinché si capisca che questi tipi di stereotipi sono inaccettabili».
La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (ECRI) parla di “pratica persistente,” compiuta dalle forze dell’ordine senza “alcuna giustificazione oggettiva e ragionevole” quando procedono a operazioni di controllo o sorveglianza, mosse soprattutto da “pregiudizi fondati sulla razza, il colore della pelle, la lingua, la nazionalità.
Dalla ricerca – condotta tra il 2015 e il 2016 attraverso interviste mirate a quasi seimila afrodiscendenti in dodici diversi Paesi, Italia inclusa – emerge infatti che un quarto del campione era stato fermato da forze di polizia nei cinque anni precedenti, e in quattro casi su dieci legava il fermo più recente a profilazione. Tra le persone fermate nei 12 mesi prima dell’indagine, il 70 percento del campione italiano parlava di profilazione razziale.
«È la generalizzazione verso la comunità nera in Italia che porta, non solo forze dell’ordine, ma anche altri cittadini ad avere un atteggiamento che discrimina» a spiegarlo Mehret Tewolde Direttrice Esecutiva presso IABW – Italia Africa Business Week. «Dovremmo riflettere su questo episodio e chiederci: avrebbe avuto lo stesso impatto mediatico se invece di Tiémoué Bakayoko fosse capitato uno studente nero italiano al 100 per cento? In Italia non c’è il riconoscimento di una cittadinanza che non sia bianca. Questo è uno dei problemi. Poi c’è una crescente rassegnazione nei confronti di aggressioni e micro-aggressioni, non si denuncia mentre si dice troppo che soffriamo di vittimismo, così serpeggia questo sentimento di arrendevolezza alle discriminazioni, non ci si sente tutelati, ascoltati ma neanche rappresentati. La rappresentazione è fondamentale. Raccontare l’Italia multiculturale e non parlare di persone nere solo come persone che hanno bisogno di essere accudite o che delinquono. Bisogna uscire da questi ghetti mentali. Allarghiamo lo sguardo, interroghiamoci su come mai la società plurale e multiculturale ben presente nelle nostre scuole, scompare finito il ciclo scolastico. Tutta una questione di narrazione. I mass media chiamano le persone nere soltanto quando si tratta di questioni che riguardano principalmente la comunità nera: migranti, razzismo, cittadinanza. Possibile che in due anni di pandemia non siamo riusciti a vedere scrittori o medici di origine diversa da quella caucasica? Eppure ce ne sono. Rappresentare la comunità in maniera diversa, aderente al reale è l’unico modo che abbiamo per rompere stereotipi e pregiudizi che alimentano il razzismo»
Dello stesso parere Kwanza Musi Dos Santos, co-fondatrice di “Questa è Roma-associazione di giovani di seconda generazione” e consulente in Diversity Management: «Quello dell’under-reporting è un problema reale. Inoltre bisogna dire che la polizia in Italia gode di uno status abbastanza protetto e quindi è difficile denunciare un sistema che continua ad autoassolversi. Quello del razzismo e della profilazione razziale è la realtà dei fatti. Non abbiamo bisogno ogni volta di episodi così eclatanti per aprire gli occhi. C’è una questione di mancanza di formazione, sensibilità, valori condivisi. E dentro questo scenario il problema è sistemico: c’è una categoria principale che definisce i principi e valori per tutti»
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