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Da anni si dice che una delle più grandi conseguenze del cambiamento climatico sarà l’aumento delle migrazioni umane, perché molti territori diventeranno inospitali a causa dell’aumento delle temperature medie, della maggiore aridità o dell’innalzamento del livello del mare. Si dice anche che queste migrazioni, in parte già in atto, avranno a loro volta conseguenze economiche (nei paesi di partenza e in quelli di arrivo) e potranno causare instabilità politiche ed eventualmente conflitti sociali.
Concretamente è difficile immaginare cosa succederà e quali siano gli scenari possibili in base alla misura del riscaldamento globale, anche perché le migrazioni, come altri fenomeni umani, sono influenzate da molteplici fattori. Tuttavia l’ultimo grande rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) dell’ONU, pubblicato il 28 febbraio scorso, ha provato a fare qualche previsione: rispetto al precedente grande rapporto dell’IPCC, risalente al 2014, contiene molte più analisi sull’impatto sociale del cambiamento climatico.
Il rapporto segnala che la maggior parte delle migrazioni climatiche avverrà all’interno dei confini dei singoli paesi, con dinamiche interne che saranno prevalenti rispetto a quelle internazionali. Del resto, è così già oggi.
I motivi principali che hanno a che vedere con il clima, per cui le persone scelgono di spostarsi da una zona a un’altra di uno stesso paese, sono gli effetti delle tempeste tropicali e delle alluvioni; nell’Africa sub-sahariana, oltre che in alcune parti dell’Asia meridionale e del Sudamerica, invece, le persone si spostano a causa della siccità.
A livello globale non esistono dati completi e affidabili sulle motivazioni delle persone che migrano volontariamente per ragioni legate ai cambiamenti climatici (in generale vengono fatte poche indagini sui motivi per cui ci si sposta per vivere altrove), ma per la comunità scientifica, secondo le valutazioni dell’IPCC, le migrazioni internazionali sono minoritarie rispetto a quelle nazionali. Nella maggior parte dei casi avvengono tra paesi contigui, tra cui esistono accordi riguardo alle condizioni di lavoro delle persone migranti, oppure con forti legami culturali. La scelta di migrare è infatti l’ultima a essere presa in considerazione, e quando ci si decide si preferisce farlo senza allontanarsi troppo.
Ci sono più dati sulle migrazioni forzate dovute a singoli disastri naturali, in molti casi aggravati o resi più frequenti dal cambiamento climatico: sono i dati che dal 2008 sono raccolti dall’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), un’organizzazione non governativa internazionale che raccoglie dati e studia le migrazioni interne ai paesi.
Secondo l’IDMC le grandi tempeste e le grandi alluvioni sono gli eventi meteorologici che causano maggiori migrazioni nel mondo: si stima che in media ogni anno più di 20 milioni di persone si spostino per questo motivo, con grosse differenze di anno in anno a seconda della frequenza e della gravità di eventi disastrosi in aree molto popolate.
In generale, dice il rapporto, «attraverso le migrazioni forzate da eventi meteorologici estremi e modifiche al clima, il cambiamento climatico ha generato e perpetuato forme di vulnerabilità». E anche ipotizzando che si riesca a contenere il più possibile l’innalzamento delle temperature medie globali è molto probabile che continui a farlo.
Al momento, dice il rapporto, non è possibile prevedere quante persone saranno coinvolte nelle migrazioni climatiche nei prossimi decenni, e quali paesi saranno maggiormente interessati dagli spostamenti, sia perché le migrazioni sono influenzate da molteplici fattori, tra cui lo sviluppo economico, sia perché tutto dipende da quanto aumenteranno le temperature medie.
Tra gli altri, l’IPCC ha citato due studi di Kanta Kumari Rigaud, un’esperta di ambiente, clima e migrazioni della Banca Mondiale, che ha cercato di stimare l’ampiezza delle migrazioni climatiche future tenendo conto delle previsioni sulla crescita della popolazione nelle diverse parti del mondo, di variabili come la quantità di pioggia e la produttività agricola e dei diversi modelli sul cambiamento climatico.
Secondo una stima, entro il 2050 tra i 31 e i 72 milioni di persone si sposteranno nei paesi dell’Africa sub-sahariana, dell’Asia meridionale e dell’America Latina a causa della scarsità d’acqua, dell’innalzamento del livello del mare e delle carestie, anche nel caso di una forte riduzione delle emissioni di gas serra, la causa del cambiamento climatico. «In Africa potrebbe avvenire la migrazione climatica su più larga scala all’interno dei diversi paesi», ha spiegato Rigaud a Vox, che ha dedicato un articolo dettagliato a questo tema.
L’articolo sottolinea che negli ultimi anni la consapevolezza che il cambiamento climatico avrà un effetto sulle migrazioni umane ha fatto sì che nei dibattiti su questi temi passasse il sottotesto che «un mondo più caldo spingerà orde di persone dai paesi più poveri a quelli più ricchi, minacciando la sicurezza e l’economia di questi ultimi». Secondo l’analisi di Vox, quest’interpretazione ha causato l’uso di toni allarmistici sui giornali e favorisce la xenofobia, ed è scorretta dato che si prevede che la maggior parte delle migrazioni climatiche avverrà appunto all’interno dei singoli paesi.
I paesi in questione avranno bisogno di specifiche strategie di adattamento per far fronte allo spostamento della propria popolazione. Negli stati insulari dell’Oceano Pacifico, minacciati dall’innalzamento del livello del mare, esistono già: alle Fiji il governo sta ricollocando più nell’entroterra le comunità che vivono sulle coste; a Vanuatu si tiene conto del cambiamento climatico e delle migrazioni in ogni ambito di decisione politica, compresa l’istruzione.
Dato che in genere i paesi maggiormente esposti alle migrazioni interne sono quelli che storicamente hanno avuto minori responsabilità nel causare il cambiamento climatico, queste problematiche avranno un peso sempre maggiore nei negoziati internazionali sul contrasto al riscaldamento globale, che però finora non hanno raggiunto particolari risultati: all’ultima conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, la COP26 di Glasgow, è stato confermato lo stanziamento di un fondo da 500 miliardi di dollari da versare in 5 anni da parte dei paesi più ricchi per quelli più poveri, ma una promessa analoga era stata formulata già dieci anni prima.
Di fatto l’ultimo rapporto dell’IPCC avvalora dal punto di vista scientifico la sensatezza di questi aiuti, che nel gergo dei negoziati climatici sono noti come compensazioni ai «loss and damage», le perdite e i danni causati dal cambiamento climatico ai paesi che meno ne sono responsabili.
Il rapporto ribadisce inoltre, sempre con maggiori prove, cose che a grandi linee già si sapevano, in alcuni casi riscontrando una maggiore gravità rispetto a stime precedenti: i danni legati al cambiamento climatico si stanno facendo vedere più velocemente di quanto preventivato e si stima che il 40 per cento della popolazione mondiale sia «altamente vulnerabile» ai suoi effetti; le tecnologie per la rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera da sole non risolveranno il problema, anzi rischiano di spingerci a emetterne di più; c’è sempre meno tempo per intervenire contro i cambiamenti in atto e secondo l’IPCC devono essere assunte misure drastiche entro questo decennio.
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