Una storia che racconta come sia stato possibile cambiare la mentalità e la narrazione attraverso il lavoro di squadra, sportiva e non solo
Di Gerald Mballe
Sono un rifugiato del Camerun, ho lasciato il mio paese natale per sfuggire all’orribile violenza di Boko Haram e al conflitto in atto nella regione e anche a causa della posizione politica di mio padre. La mia storia è una di quelle che il mondo conosce bene: un giovane africano che attraversa il Sahara, che viaggia con alcuni dei gruppi più pericolosi al mondo, che sopravvive a lunghe notti su un gommone nel mezzo del Mediterraneo, che sbarca a Pozzallo, nel sud Italia, e che si stabilisce a Settimo Torinese, nel Nord Italia, cercando di crearsi una nuova vita.
Come la maggior parte dei giovani rifugiati, soprattutto i minori non accompagnati, mi sono trovato in una terra sconosciuta, che non accettava sempre la mia presenza. Ero spaventato, disorientato e fragile. Nuove lingue, nuova cultura, nuove regole. A Torino avevo un educatore che aveva il compito di mostrarmi la città, di insegnarmi i sistemi di trasporto pubblico ed altro. L’educatore conosceva la mia passione per il calcio e mi ha invitato a partecipare ad un allenamento della squadra locale. Ho iniziato così ad allenarmi con una squadra di calcio dell’organizzazione Special Olympics locale a Settimo Torinese, che coinvolge ragazze e ragazzi con disabilità intellettive. La prima cosa che ho pensato quando sono arrivato alla sessione di allenamento è stata che in Camerun non avevo mai visto queste persone partecipare a eventi sociali. Erano nascoste. Non c’era posto per loro. Qui invece le invitano!
Oggi non voglio più parlare dei traumi che ho subito ma dei benefici e dei vantaggi che può dare lo sport nella vita di ciascuno. Oggi ho 24 anni e sono consulente per il programma “Unified with Refugees” all’interno di Special Olympics Europe Eurasia (SOEE), organizzazione facente parte del movimento Special Olympics, che supporta le persone con disabilità intellettive, ma anche chi non ha disabilità, attraverso lo sport come mezzo di integrazione.
La mia storia
Tutto inizia nel gennaio 2015, quando – penso che mio zio abbia voluto darmi una possibilità – parto, seguendo un trafficante nella speranza di trovare un posto più sicuro dove vivere. Attraverso il Camerun, la Nigeria, il Niger, l’Algeria, il Marocco, di nuovo l’Algeria e infine la Libia.
Per un anno non ho parlato, sia per le barriere linguistiche sia per paura di rappresaglie durante il mio viaggio.
Nel novembre 2015 vengo salvato dalla nave di Medici Senza Frontiere e arrivo a Pozzallo, in Sicilia. Eravamo un centinaio di persone e siamo stati accolti dalla Croce Rossa Italiana e collocati in un centro di accoglienza a Settimo Torinese, una cittadina di circa 48.000 abitanti alla periferia di Torino. Lì mi hanno fornito beni di prima necessità e anche offerto sedute di supporto psicologico.
Il centro di accoglienza era lontano da tutto, non capivo la lingua e la comunità locale non aveva quasi mai avuto a che fare con i migranti. Anche se i luoghi di scambio – biblioteche, cinema, musei o panetterie – non erano chiusi per noi, non ci sentivamo benvenuti. Riesco comunque a seguire lezioni di italiano, grazie al supporto del mio educatore.
Quando a gennaio 2016 il personale del centro di accoglienza mi ha proposto di partecipare alle attività di volontariato, ho visto un’opportunità per sentirmi utile. Sono così diventato un volontario per la Croce Rossa ed ho portato il cibo alle famiglie che non potevano avere un piatto di pasta a casa. Questa attività mi ha permesso di capire che non ero l’unico in difficoltà, nonostante fossi nero. In seguito mi sono formato per diventare mediatore linguistico-culturale.
Lo sport, e principalmente il calcio, era l’unica via di fuga dai traumi e dagli incubi. Dopo avermi visto giocare, il mio educatore mi ha chiesto di allenare una squadra di giovani atleti con disabilità intellettive per la preparazione agli eventi di Special Olympics.
Da queste persone ho ricevuto una bellissima accoglienza: mi hanno abbracciato, senza nemmeno conoscermi! Non comunicavamo molto con le parole, ma attraverso lo sport e le emozioni correlate. La squadra era molto accogliente, per cui ho continuato ad allenarmi con loro, arrivando a partecipare a giochi regionali, nazionali ed internazionali. La mia voglia di integrazione è stata notata anche dalla Squadra Nazionale di Special Olympics Italia, e con loro ho partecipato al fianco dell’Italia ai Giochi Mondiali di Special Olympics ad Abu Dhabi nel marzo 2019, evento a cui hanno partecipato 7.500 atleti provenienti da 200 Paesi.
In Camerun le persone con disabilità sono totalmente escluse dalla comunità. In Italia invece sono stati loro ad aiutarmi a ritrovare la fiducia che avevo perso durante il mio percorso migratorio.
È su questa idea di arricchimento reciproco che David Evangelista, presidente e direttore esecutivo di SOEE, ha creato il programma “Unified with Refugees” Special Olympics che ha visto, nel dicembre 2020, la creazione di una partnership con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).
Nel gennaio 2021, dopo il diploma di maturità, ho deciso di proseguire gli studi, iscrivendomi a Scienze politiche e relazioni internazionali. Allo stesso tempo, David Evangelista mi ha offerto il primo incarico come consulente del programma Unified with Refugees. È stato incredibile per me ricevere quest’opportunità. Sono convinto che lo sport sia lo strumento migliore che possiamo usare per abbattere tutte le barriere e gli stereotipi.
Oggi sono in grado di condividere la mia storia con coraggio e passione. Grazie allo sport, sono riuscito a contribuire anche nel lavoro all’interno dei centri di accoglienza per migranti. Ho iniziato, infatti, con il Servizio Civile Nazionale presso la Croce Rossa Italiana, nello stesso centro che mi ha accolto all’arrivo, cercando di restituire un po’ dell’aiuto che avevo ricevuto. Successivamente, sono stato assunto come operatore di accoglienza, svolgendo però il ruolo di mediatore linguistico-culturale. Con la Croce Rossa ho partecipato a incontri internazionali sui temi della migrazione e dell’inclusione sociale, a volte anche in qualità di relatore. Inoltre, ho contribuito allo sviluppo del podcast dell’Associazione, dove ero speaker e intervistatore.
La donna con cui condivido la mia vita è italiana ed è praticamente la mia metà. Sono molto grato di avere una persona come lei al mio fianco, che mi supporta in ogni mia azione. Questa donna mi ha dato un figlio. È vero che questo piccolo bambino ha una storia familiare già molto pesante da sopportare, ma tutto ciò che faccio è per far sì che mio figlio mi veda come un combattente e non come una vittima. Grazie a lui, anche le mie radici sono ora in Italia.
Sono convinto che il mio vissuto possa essere un esempio per quelle organizzazioni che combattono per l’inclusione tramite lo sport. Non lasciate partecipare i rifugiati ai progetti solo come beneficiari, ma facilitateli nel prendere l’iniziativa, dando loro gli strumenti necessari, offrendo delle formazioni, rendendoli professionisti e mettendoli all’opera. Questo aiuta a cambiare la mentalità e la narrazione dell’inclusione, offrendo ai rifugiati un ruolo attivo e da protagonisti. Solo così sarà possibile creare un mondo con pari opportunità per tutte e tutti.
Se dovessi tornare in Camerun un giorno, mi piacerebbe parlare con una famiglia di persone con disabilità intellettive, confrontandomi con loro sui benefici dello sport come opportunità di riscatto.
Sono orgoglioso di ciò che ho raggiunto, dei premi che ho vinto, delle persone importanti che ho incontrato, dei posti che ho visitato. Sono grato alle persone che hanno creduto in me, che mi consigliano e mi accompagnano nei miei sogni.
Costretto da ragazzo al silenzio sulle rotte migratorie, oggi parlo quattro lingue e diversi dialetti africani, giro il mondo per implementare eventi sportivi e far sentire la voce dei rifugiati ed il mio forte messaggio di tolleranza e inclusione attraverso lo sport.
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