di Piera F. Mastantuono
“Il 60,5% dei profughi mostra problemi di salute mentale, 87% dei pazienti dei centri di accoglienza ha dichiarato di soffrire per le difficoltà legate alle condizioni di vita attuali” sono due affermazioni false perché decontestualizzate. Le percentuali indicate si riferiscono a 387 migranti presenti nei CAS del ragusano, oggetto del report di Msf “Traumi ignorati” pubblicato nel 2016.
Ciò significa che era il 60.5% dei 387 migranti che si trovavano in alcuni CAS del ragusano a lamentare questo disagio, non la totalità della popolazione migrante presente in Italia.
«Il disagio psicologico non è da confondersi con il disagio psichiatrico, poiché il primo è legato al dramma e alle esperienze di vita vissuta, e può essere enfatizzato dalle condizioni di vita attuali, come per ciascun individuo – sottolinea Silvia Mancini di Medici senza Frontiere – con disturbo psicologico s’intende il disagio che qualsiasi individuo, migrante e non, prova in avvenimenti particolarmente traumatici nella propria vita. Non è vero che i migranti abbiano una presunta maggiore problematicità psichica, soffrono dei nostri stessi disturbi» prosegue Mancini.
Traumatizzazione secondaria
Lo studio condotto da Msf voleva puntualizzare l’assenza, attualmente, di un sistema che accogliesse a tutto tondo la persona, e di come fosse invece necessario un approccio multiculturale che coinvolgesse assistenti sociali, psicologi, mediatori culturali in grado di lavorare in coordinazione sinergica con le ASL e gli enti locali. «Un’accoglienza diffusa sul modello dello SPRAR, insieme ad un’equipe multiculturale che potrebbe aiutare a costruire ponti tra le culture e promuovere un complesso processo d’integrazione» conclude Mancini.
A livello lessicale è inoltre opportuno ribadire come coloro che vengono definiti “pazzi” siano in realtà persone con un disagio mentale, che può voler dire anche avere difficoltà a dormire, a mangiare, ad inserirsi, un senso di tristezza, appunto, un disagio.
«L’ 87% del campione di migranti non aveva di fatto bisogno di alcun supporto psicologico, ma dichiarava di soffrire della condizione attuale vissuta nei CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), si trattava quindi di un disagio trasmesso dalle condizioni inadeguate di un sistema di accoglienza che, di fatto, non accoglie e che può dar vita alle cosiddette traumatizzazioni secondarie dopo i traumi vissuti nel paese di origine e lungo il percorso migratorio. Va sottolineato come, tra i fattori di rischio più rilevanti che fanno maturare il disagio, ci siano la percezione di essere emarginati, lo scarto che si sviluppa tra ciò che si voleva realizzare con il viaggio e la realtà, le barriere linguistiche, la mancanza di una rete familiare e amicale, le difficoltà abitative ».
Ciò significa che l’informazione fornita nell’articolo manca dei requisiti che la contraddistinguono, ovvero essere completa, ben contestualizzata e scritta nel rispetto della verità sostanziale dei fatti.
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