Di Laura Carrer e Riccardo Coluccini su Lavialibera
In un mondo interamente digitalizzato, il controllo dei corpi e la loro esclusione da determinati spazi non poggia più esclusivamente sull’impiego della forza. Al fianco di forme di oppressione e violenza agite attraverso i Centri di permanenza per il rimpratrio (Cpr) e i respingimenti nelle rotte europee e mediterranee operati da Frontex, in Italia è attiva da anni un’altra e invisibile criminalizzazione dei migranti. Invisibile poiché attivata attraverso bit digitali e dati che confluiscono nei database delle forze di polizia, senza alcuna trasparenza.
La ricerca svolta per il Centro Hermes per la Trasparenza e i Diritti umani digitali, Tecnologie per il controllo delle frontiere in Italia, ha cercato di raccontare il viaggio parallelo dei migranti: quello che compiono i loro dati biometrici, ovvero le loro impronte digitali e i loro volti. Dati e informazioni raccolti attraverso procedure di identificazione che configurano veri e propri ricatti. Ai migranti è infatti imposto il rilascio dei dati per ottenere in cambio (forse) un futuro migliore nel nostro paese. Si tratta di procedure che non vengono spiegate attraverso la mediazione culturale e alle quali loro non possono dunque acconsentire o opporsi. Con il risultato che qualunque straniero arrivi irregolarmente in Italia viene schedato come un criminale che ha commesso omicidi o furti. Prima ancora di iniziare la propria vita in Italia, sono è considerato già colpevole.
Al momento dell’arrivo tutti i migranti irregolari – incluse donne e minori che hanno almeno 14 anni – sono sottoposti a una procedura di fotosegnalamento, che include la raccolta dei dati anagrafici, delle impronte delle mani e della foto del volto. Questa raccolta riguarda anche i cittadini stranieri che chiedono protezione internazionale. Le cartelline fotosegnaletiche create a seguito delle procedure di identificazione all’interno degli hotspot vengono poi collezionate nel database Afis, in uso alla Polizia di Stato, realizzato al fine di tenere traccia degli individui che hanno commesso un crimine sul territorio italiano e utilizzato dalle forze dell’ordine per identificare un pregiudicato più velocemente. Secondo le stime fornite a fatica dal Ministero dell’Interno, in AFIS sarebbero presenti 17.592.769 cartellini fotosegnaletici, corrispondenti a 9.882.490 individui diversi, di cui 2.090.064 si riferiscono a cittadini italiani. Sui quasi 10 milioni di individui, quasi 8 milioni sono “stranieri” ma il Ministero dell’Interno non ha specificato di quale nazionalità.
Il fatto che i migranti siano inseriti all’interno di un database riservato a pregiudicati soltanto perchè hanno commesso il reato di immigrazione clandestina è significativo di come la criminalizzazione dei migranti sia inscritta nell’infrastruttura tecnologica italiana. Dopo la promulgazione della legge Martelli nel 1990 è stata la volta (alla fine degli anni ‘90) della normativa Turco-Napolitano che ha definito l’impianto sul quale la successiva Bossi-Fini avrebbe ruotato. Di fatto, se la legge Bossi Fini definisce chi e quando può entrare in Italia per lavorare attraverso la politica dei flussi, il database Afis non fa altro che automatizzare una discriminazione sulla base della condizione temporanea in cui si trova il migrante.
Ogni volta che la polizia scientifica usa Afis per cercare l’identità di un sospetto criminale, ripreso ad esempio da videocamere a circuito chiuso, scorre una lista di persone fotosegnalate considerandole potenziali indiziati. La probabilità che le forze dell’ordine trovino una corrispondenza tra il volto che ricercano e quelli presenti nel database, stando a quanto sappiamo, è molto più alta se si tratta di una persona straniera, migrante. Questo perché se il database è composto per la maggior parte da una categoria di persone, non potranno esserci risultati alternativi. Quella stessa categoria di persone – ovvero persone non bianche – è però anche quella che subisce le più gravi conseguenze a causa dell’inaccuratezza degli algoritmi di riconoscimento facciale usati dalle forze dell’ordine: come ci ricordano studi e notizie di arresti di persone sbagliate avvenuti negli Stati Uniti, quando gli algoritmi di riconoscimento facciale devono identificare una persona nera commettono più spesso errori rispetto a quando devono farlo con una persona bianca.
Le procedure di identificazione su migranti, rifugiati e richiedenti asilo sono operate soprattutto sulla base di ciò che l’Europa richiede agli stati membri dell’Unione, dato che la raccolta di dati e informazioni è ritenuta necessaria alla gestione dei flussi migratori e delle richieste di asilo. Non a caso, l’interconnessione tra i database nazionali e quelli europei comporta la veicolazione dei dati biometrici prelevati ai migranti in Italia o in qualsiasi stato membro dell’Unione.
Come riportato nella ricerca, tra il 2014 e il 2020 l’Italia ha ricevuto e speso finanziamenti dall’Unione Europea vicini al mezzo miliardo di euro per l’acquisto o il potenziamento di tecnologie che facilitino l’identificazione di chi arriva alla frontiera e per la sorveglianza dei confini. Non per ultimo, a gennaio 2021 il ministero dell’Interno ha palesato la volontà di potenziare il proprio sistema di riconoscimento facciale SARI per utilizzarlo allo scopo di identificare i migranti direttamente allo sbarco sulle coste italiane.
La tecnologia, e nello specifico l’utilizzo di dati identificativi o biometrici, è componente fondamentale per la realizzazione di politiche di sicurezza che mirano alla tutela dello status quo, mettendo a rischio libertà individuali e diritti fondamentali con un diverso grado di ripercussioni. I dati biometrici sono quanto di più unico abbiamo afferente il nostro corpo, e diventano nutrimento di un dispositivo biopolitico che ha l’obiettivo di gestire e controllare, normare e normalizzare, segregare ed escludere.
Non tutte le individualità sono soggette allo stesso modo all’impatto delle tecnologie digitali sulla società. Mentre in Europa si discute di come regolare la continua evoluzione delle intelligenze artificiali in settori quali il lavoro, la Pubblica Amministrazione o la sanità, il settore della sicurezza è quello che maggiormente si sottrae a regole precise e necessarie per la salvaguardia dei diritti umani. Nel caso particolare dei fenomeni migratori, poiché un’intera categoria di persone – migranti, stranieri e richiedenti asilo – è rappresentata come meritevole di controllo e sorveglianza, la sperimentazione tecnologica si verifica in zone grigie, in cui la responsabilità dello stato e dei governi è ridimensionata grandemente per via dell’ambito in cui viene agita.
Quello che il filosofo francese Michel Foucault chiamava biopotere, ovvero l’insieme di tecnologie, pratiche e metodi per il controllo dei corpi e della vita della popolazione, è diventato un’interpretazione sempre più precisa del modello di società odierna. Il sistema di sorveglianza impone una sorta di regime di verità che pone gli individui, la popolazione di uno stato o chi lo deve semplicemente attraversare, in una condizione di assoggettamento in cui alla fine nessuno dubita né delle norme né dei meccanismi di potere che vengono esercitati. Perché sono stati normalizzati.
Fin’ora il governo italiano ha mostrato di non riuscire a gestire correttamente i database che raccolgono dati biometrici di migranti, rifugiati e richiedenti asilo: le informazioni finiscono infatti con l’essere “diluite” tra quelle relative allo stato legale di una persona che ha commesso altri reati. Inoltre, il Ministero dell’Interno continua a non rendere trasparente la gestione di questi dati, opponendosi all’interesse pubblico e mantenendo i tempi di conservazione dei dati inclusi in AFIS, e la composizione del database, avvolti in una cortina di fumo. Cortina che potrebbe però essere scalfita dall’intervento del Garante per la protezione dei dati personali.
La criminalizzazione dei migranti attraverso l’infrastruttura tecnologica italiana era già emersa dai report della Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza, di identificazione ed espulsione istituita nel 2014 e ora non più operante, ma la sensibilità verso la tecnologia è stata quella di una generale passiva accettazione. Il percorso parallelo dei dati biometrici dei migranti porta con sé rischi reali che non andrebbero trascurati dietro il paravento dell’impalpabilità dei canali digitali. Schedare una persona perché ha deciso di varcare un confine, accomunandola a soggetti che hanno commesso omicidi, furti e altri reati, non può essere la soluzione offerta dall’Italia e dall’Europa in materia di immigrazione.
Immagine in evidenza di Lavialibera
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