Rilanciamo di seguito l’articolo pubblicato su La Repubblica oggi, 21 marzo, in cui il giornalista Francesco Merlo commenta la vicenda.
di Francesco Merlo per La Repubblica
Ousseynou Sy è il senegalese che ha tentato di fare una strage di bambini, ma non ha tentato di fare una strage di bambini perché è senegalese. Allo stesso modo, il neozelandese Brenton Harrison Tarrant è un cristiano che ha fatto una strage di musulmani, ma non ha fatto una strage di musulmani perché è cristiano. La nerissima cronaca dei nostri anni ferocemente pazzi è piena di invasati che sono impazziti di terrorismo, ma ogni volta che la sociologia del terrorismo è stata applicata a uno solo di questi solitari assassini o aspiranti assassini, stragisti, sparatori o tombaroli, si è subito degradata in sociologismo.
Solo a tarda sera, per cominciare, abbiamo avuto la prima foto di Ousseynou Sy. Vi si intravede la banale faccia del criminale stordito che, circondato dai carabinieri e infilato dentro la gazzella, si è guadagnato il suo quarto d’ora di popolarità e ha trasformato i suoi quindici minuti di follia in un’eternità di galera. Non è ancora un uomo in posa, ma – fateci caso – da Breivik a Traini, non c’è un solo “mostro” che, una volta preso, abbia davvero esibito la tenebrosità del diavolo né quegli occhi di ghiaccio che sempre, a ogni orrore, gli vengono attribuiti senza neppure guardarlo in faccia. In Italia abbiamo cominciato – ricordate? con il ghanese Mada Kabobo che in un’ora di follia uccise a colpi di machete tre passanti a Niguarda. Ci volle un po’ di tempo a capire che la sua schizofrenia e la sua paranoia non erano etniche: il suo Paese, il Ghana, non era il mandante “oggettivo” della sua pazzia macellaia. E abbiamo avuto Preiti che, in piazza Montecitorio, proprio mentre il governo Letta, unendo destra e sinistra, giurava al Quirinale, ferì due carabinieri e una passante sostenendo che voleva sparare alla casta ma che aveva sbagliato bersaglio. Nella sua logica disturbata, Preiti pensò di trovare più solidarietà contro i politici che contro i carabinieri (uno, Giuseppe Giangrande è rimasto paralizzato). E infatti la trovò perché anche in quel caso la sociologia si scatenò dicendo che la colpa “oggettiva” era dell’inciucio, la trovò nell’Italia politica, che era anch’essa disturbata.
Di sicuro la sociologia applicata alla cronaca nera è la madre di tutti i razzismi moderni. E adesso c’è il senegalese che, per vendicare i morti nel Mediterraneo e tutti i senegalesi emigrati, sino a Koulibaly insultato negli stadi, aveva premeditato un rogo di bambini girando persino un video: “Africa sollevati”. Ed è l’autista nero di un autobus di bimbi bianchi, un altro dettaglio che sembra sbucare dalla storia del razzismo. Intanto perché sempre l’autobus sobilla e rende i matti ancora più matti. Nell’autobus ci sono infatti le emozioni e gli odori, tocchi e guardi i passeggeri che si toccano e si guardano, vedi i bimbi di scuola con le cuffiette in testa e con le scarpe da tennis ai piedi. L’autobus è, nelle città, il luogo dove scoppiano più risse che altrove, il piccolo mondo recluso dove si scatena l’odio contro il diverso che ti sta accanto. Negli anni Sessanta, nell’America di Kennedy, all’inizio dei grandi disordini razziali, all’origine delle rivolte nere e delle leggi speciali c’è una donna di colore, Rosa Parks, che appunto in un autobus non volle cedere il posto riservato ai bianchi. Qui c’è pure, nell’autista nero, un altro stereotipo del razzismo, come nella cameriera nera.
Ecco dunque che, a poco a poco, tutto torna. Anche nella logica che – come ci ha insegnato Amleto sempre c’è nella follia. I disperati e i matti come il nostro Ousseynou Sy non sono Crociati che liberano i Sepolcri, ma sono appunto matti che, facendo esplodere la loro vita guasta, acchiappano tuttavia per la coda gli odi dell’epoca: quello dei governi contro gli immigrati neri, dei sovranisti contro i globalisti, degli estremisti ebrei e cristiani contro i musulmani, delle grandi città contro le loro periferie: Traini viveva, con la nonna, in un squallido appartamentino, alla periferia di Tolentino che è a sua volta la periferia di Macerata. E San Donato non è un paese, ma è una periferia diventata città, la porta sud di Milano.
E però qui c’è pure il lieto fine. C’è il maresciallo buono, Roberto Manucci di Paullo, maresciallo capo per la precisione, che sembra uscito dall’Italia antica, ingenua e coraggiosa di Vittorio De Sica. Stempiato, con gli occhiali, emozionato e padre di due figli – «ho pensato a loro» – ha rotto il vetro di dietro come un James Bond alla casereccia. E infatti, anche mentre bloccava il criminale, ancora pensava – ha ripetuto solo a loro, ai bimbi.
E tra i bimbi c’è il biondino che ha saputo governare la paura e trovare la bella strada della legittima difesa che in Italia è un’altra caverna platonica della violenza. Il bimbo ha avuto il sangue freddo di liberarsi delle fascette elettriche che il matto gli aveva imposto ai polsi e ha chiamato non il suo papà, ma addirittura i carabinieri. È la razionalità bambina in un paese di adulti matti, è la sanità di mente e il governo delle emozioni nell’Italia che è un paese-manicomio di vecchi. E torna l’idea del mondo salvato dai ragazzini perché quel bimbo ha le stesse qualità dei suoi quasi coetanei che sabato scorso hanno manifestato in tutto il mondo per difendere l’ambiente. Il bimbo eroe di San Donato è un loro fratello, un’altra meraviglia nel nostro tempo marcio. De Sica appunto ne avrebbe fatto un seguito di Miracolo a Milano.
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