Di Rosita Rijtano su lavialibera
Si susseguono gli scioperi della fame nelle strutture in cui nei mesi scorsi sono state rinchiuse le persone arrivate attraverso il confine bielorusso. Intanto è iniziata la costruzione del muro
Sovraffollamento, carenza di vestiti adatti al gelo, e di cibo. Sono le condizioni in cui vivono i richiedenti asilo che nei mesi scorsi sono arrivati in Polonia attraversando il confine bielorusso. Lo denunciano associazioni umanitarie e volontari che chiedono la chiusura delle strutture in cui hanno trattenuto quasi tutte le persone che da maggio a oggi sono riuscite a superare la frontiera. Centri di sorveglianza per stranieri simili ai nostri Centri per il rimpatrio (Cpr), in cui “non ci sono gli standard minimi per il rispetto dei diritti umani”, dice a lavialibera Monia Matus di Grupa Granica, sigla sotto cui sono riunite più organizzazioni non governative polacche, aggiungendo che il Paese non ha una politica migratoria: “Una lacuna che rende difficile processare le richieste d’asilo, con il conseguente rischio di possibili abusi”. Non va meglio a chi ancora si nasconde nella foresta tentando di superare il valico polacco, dove nelle scorse ore è iniziata la costruzione del muro annunciato a novembre.
Intrappolati, respinti o rimpatriati tra Polonia e Bielorussia
Sin dall’inizio, il governo di destra guidato da Mateus Morawiecki ha ostacolato gli aiuti umanitari al confine, agitando lo spettro dell’invasione nonostante i numeri fossero gestibili. A settembre il parlamento ha adottato lo stato di emergenza, un provvedimento che ha imposto delle restrizioni nella lingua di terra a tre chilometri dalla Bielorussia, limitando i soccorsi. Il provvedimento è stato prorogato di mese in mese fino a dicembre, quando sono state decise nuove regole. Ma nei fatti sembra che non molto sia cambiato. Il 6 gennaio Medici senza frontiere ha annunciato l’abbandono della Polonia per l’impossibilità di accedere alla zona confinaria.
Un’altra ferita aperta sono i respingimenti legalizzati a ottobre dal Sejm, la camera bassa del parlamento di Varsavia, con un emendamento alla legge sugli stranieri: i migranti che superano il confine vengono riportati in Bielorussia, senza che venga presa in considerazione la loro volontà di richiedere asilo. Una pratica che viola i trattati internazionali, ma che in questi mesi in Polonia è diventata prassi nel silenzio d’Europa. Dopo essere stato respinto più volte, chi è ritornato a Minsk ora si trova davanti poche opzioni. Stando a quanto hanno raccontanto a lavialibera alcuni di loro, nelle ultime settimane Lukashenko sta imponendo un ricatto: o vengono arrestati, o rientrano nel proprio Paese, o riprovano a entrare in Polonia.
Sovraffollamento e lunghi tempi di attesa
Qui, in totale, si contano sette centri di sorveglianza per stranieri, di cui uno aperto di recente proprio per far fronte al flusso migratorio in arrivo dalla Bielorussia. Al momento si stima che ospitino circa duemila individui. Tutte le strutture, incluse quelle in cui ci sono i bambini, si trovano in condizioni pessime. “Il principale problema è il sovraffollamento – spiega Matus –. Ma le persone con cui abbiamo parlato denunciano anche la carenza di cibo e di vestiti adeguati al freddo”. Pochissime le postazioni internet, a cui ognuno ha accesso non più di quindici minuti al giorno. Banditi gli smartphone dotati di fotocamera e di strumenti di registrazione audio.
Un’altra difficoltà generale è legata ai lunghi tempi di attesa per ottenere risposta alla richiesta di asilo. In teoria, non dovrebbero passare più di tre mesi. In pratica, grazie alla possibilità di prolungare di altri tre mesi il soggiorno all’interno di queste strutture, alcuni si ritrovano imprigionati per molto tempo. “Di contro, le domande accolte sono pochissime”. Nel 2020, per esempio, hanno ottenuto protezione internazionale solo 392 persone, a fronte delle 2803 che ne avevano fatto richiesta. “Il governo polacco non ha mai brillato per la gestione dei richiedenti asilo, ora la situazione è solo peggiorata”, conclude Matus.
Il lager di Wedrzyn
Molto critica la situazione a Wedrzyn, collocato all’interno di una caserma per l’addestramento militare, a circa cinquanta chilometri dalla Germania. La struttura ospita 593 uomini, con camere da 24 posti letto ciascuna. Hanna Machinska, vice garante civica (l’istituzione che in Polonia si occupa di difendere i diritti umani), ha visitato il centro il 24 gennaio scorso, documentando che la densità rende impossibile il rispetto dei diritti e riduce la funzione di Wedrzyn a quella di mero “isolamento”. L’unico spazio aperto è un piccolo cortile recintato dal filo spinato.
La vice garante ha anche fatto notare che la superficie minima prevista per gli stranieri in queste strutture (due metri quadri) è persino inferiore a quella dei detenuti nelle carceri (tre metri quadri) e al di sotto degli standard raccomandati dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (quattro metri quadri). Non solo: i richiedenti asilo si trovano in un cattivo stato mentale, esasperato dal fatto di essere da molto tempo costretti a rimanere in un luogo così sovraffollato.
Da mesi, nel centro si susseguono le proteste. L’ultima qualche giorno fa. Uno sciopero della fame a cui hanno partecipato, tra gli altri, sette siriani. Il gruppo si trova a Wedrzyn da dicembre, quando spontaneamente si è presentato alla Guardia di frontiera polacca accompagnato dagli attivisti di Grupa Granica. Due di loro, Munzer e Gaith, hanno visto la propria città natale distrutta dall’Isis e sono stati più volte incarcerati dal regime siriano per la propria attività politica. In particolare – riportano i volontari dell’associazione –, Munzer ha paura delle armi e il posto in cui si trova gli riporta alla mente le traumatiche esperienze vissute in Siria. “Non possiamo restare ancora in prigione, rispettiamo il Governo polacco, ma non c’è alcuna ragione per tenerci qui”, ha detto il giovane agli attivisti.
Silvia Cavazzini, una volontaria italiana che parla ogni giorno con alcune persone all’interno della struttura, aggiunge che anche le cure mediche sono carenti: a un ragazzo che soffre di epilessia, per esempio, non gli sono state riconosciute tutte le medicine di cui aveva bisogno. “Ma al di là dei casi specifici, tutti lamentano di stare male e di non ricevere abbastanza supporto”. Inesistenti, poi, le misure anti-Covid: “Hanno detto – prosegue Cavazzini – di non aver ricevuto alcuna mascherina, né di aver fatto un tampone all’ingresso”. In uno dei cinque blocchi che compongono il centro, la situazione sarebbe persino peggiorata dopo una rivolta, quando i tafferugli avrebbero portato a una rappresaglia delle guardie che ha ripercussioni ancora oggi: un limitato accesso alla Rete.
La costruzione del muro
Intanto al confine sono partiti i lavori per la costruzione di una barriera lunga circa 186 chilometri, che la Guardia di frontiera polacca, sul proprio sito ufficiale, definisce “il più grande investimento nella storia” del corpo. La struttura si compone di pali di acciaio alti cinque metri e sormontati da una rete di filo spinato. Non mancano tecnologie all’avanguardia: sensori di movimento e telecamere. Il costo è di 353 milioni di euro. “Vogliamo che la recinzione sia installata entro la fine della prima metà del 2022”, ha dichiarato a novembre il ministro degli Interni di Varsavia Mariusz Kaminsky.
Contro il finanziamento del muro con i soldi dell’Unione europea, si era espresso l’ex presidente dell’europarlamento David Sassoli, morto l’11 gennaio: “Abbiamo visto nuovi muri, i nostri confini in alcuni casi sono diventati confini tra morale e immorale, tra umanità e disumanità, muri eretti contro persone che chiedono riparo dal freddo dalla fame dalla guerra dalla povertà”, ha detto nel suo ultimo video messaggio pubblicato in occasione delle festività natalizie, aggiungendo: “Il periodo del Natale è il periodo della nascita della speranza e la speranza siamo noi quando non chiudiamo gli occhi davanti a chi ha bisogno, quando non alziamo muri ai nostri confini e quando combattiamo contro tutte le ingiustizie”.
Ma sulla questione l’Europa è divisa. Se l’opinione di Sassoli aveva una spalla sicura nella presidente della Commissione Ursula von der Leyen, la pensano diversamente i 12 Stati Ue che hanno firmato una lettera aperta in cui si legge che “una barriera fisica è un’efficace misura di protezione della frontiera a servizio degli interessi dell’intera Europa”. Un’analisi interna al Consiglio, letta dalla testata Politico, riporta che i Paesi interessati potrebbero ottenere i fondi nel caso in cui rispettino leggi e condizioni Ue, garantendo la supervisione delle istituzioni e in particolare accesso alla frontiera a Frontex (l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera). Un ultimo segnale di apertura è arrivato a novembre, quando il presidente del Consiglio Ue Charles Michel in visita a Varsavia, ha affermato che “basandosi sull’opinione del servizio legale del Consiglia, (il finanziamento, ndr) è legalmente possibile”.
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