Un articolo di Estella Carpi, Sara Al Helali e Amal Shaiah Istanbouli su openDemocracy, traduzione a cura di Rosamaria Castrovinci su Voci Globali
In tutto il mondo proliferano programmi di “inclusione” e di “integrazione” indirizzati ai rifugiati vittime di sfollamento, ma spesso non funzionano da catalizzatori della coesione sociale. Il che non è una sorpresa quando i cittadini del Paese di accoglienza non sono adeguatamente istruiti e informati sull’inclusione e integrazione dei migranti.
Anzi, tali programmi – lungi dall’essere in alcun modo radicali – non sono solamente inefficaci, ma sono anche politicamente conservatori. Questo perché principalmente non considerano la mobilità umana come un processo continuo e trasversale in tutti i gruppi sociali.
Nella storia contemporanea della migrazione forzata, la maggior parte dei programmi umanitari e di sviluppo si è rivolta principalmente all’assistenza ai rifugiati e ai richiedenti asilo, insistendo sui loro diritti e sui loro bisogni. Le associazioni della società civile e i gruppi di attivisti che, in generale, partecipano apertamente alla mobilitazione politica, spesso finiscono per adottare una strategia simile, focalizzandosi solo su un lato della medaglia durante le campagne di sensibilizzazione e i programmi di assistenza.
Fatta questa premessa, va detto che in alcune città e paesi a volte si svolgono piccole sessioni informali di informazione sulla migrazione forzata e sulle attività di integrazione che richiedono il coinvolgimento dei Paesi di accoglienza, ma non sono incluse nei programmi ufficiali di educazione fin dai primi anni di vita.
Tale carenza di un approccio sistematico per “educare il Paese ospitante” rispecchia un’offerta informativa molto poco convincente. Dovrebbe essere promossa l’educazione all’empatia per quei gruppi sociali che si mostrano indifferenti a questioni socialmente rilevanti come quelle della migrazione forzata e a tutto ciò che concerne l’accoglienza dei rifugiati.
Dai dati raccolti in Libano e in Turchia negli ultimi quattro anni, come parte del progetto Southern-led Responses to Displacement from Syria condotto dalla professoressa Elena Fiddian-Qasmiyeh alla University College di Londra, è emerso come molti dei rifugiati siriani intervistati abbiano sottolineato la necessità per i Paesi di accoglienza di essere “formati” circa l’esperienza della guerra e dello sfollamento per poter comprendere le motivazioni dell’arrivo dei migranti e per capire come accettare e sostenere i rifugiati appena arrivati all’interno delle loro società.
“I Governi e le autorità locali dovrebbero cercare, tramite i media, di trasmettere messaggi che incoraggino la popolazione locale a sostenere i Siriani o, quantomeno, che prevengano atteggiamenti razzisti. Tali messaggi dovrebbero essere indirizzati in particolare agli studenti locali“, ha spiegato una rifugiata siriana intervistata a Hatay, in Turchia.
In realtà è stato segnalato il suicidio di uno studente di nove anni rifugiato in Turchia nell’ottobre del 2019, come conseguenza dell’estremo razzismo subito a scuola, mentre i media locali e nazionali continuavano ad alimentare ondate di xenofobia in tutta la Turchia dall’inizio della crisi umanitaria in Siria.
Analogamente, un gran numero di rifugiati siriani ha affermato di avere la convinzione fuorviante che essi stessi costituiscano unicamente un fardello per le “economie ospitanti”.
Un rifugiato siriano a Gaziantep, città della Turchia, suggeriva che “i Governi dei Paesi arabi dovrebbero contribuire a educare la propria popolazione affinché i rifugiati siano accettati nei loro territori e ne sia facilitata l’integrazione: i Governi devono chiarire che i rifugiati non ricevono aiuti che vanno a discapito dell’economia ospitante.”
Un altro sosteneva che i suoi buoni in contanti non sono un regalo dei Governi ospitanti, e che veicolare questo messaggio pubblicamente alleggerirebbe le tensioni locali. Quello di educare i Paesi di accoglienza è spesso indicato come uno strumento efficace per ridurre il risentimento contro i rifugiati e stimolare un’empatia consapevole all’interno della società locale.
Uno studente di un villaggio del Libano del Nord ha confermato questa ipotesi: “Io non so molto di ciò che è successo in Siria nel 2011. Vedo soltanto un mucchio di siriani qui. Come posso imparare la loro storia se queste cose non vengono insegnate a scuola?“, ha chiesto.
Nelle interviste ed esperienze fatte in Turchia e Libano, le ONG internazionali sono state indicate come soggetti potenzialmente influenti nell’educazione delle popolazioni dei Paesi di arrivo su cosa significhi ospitare attivamente i rifugiati. Infatti, alcuni grandi enti umanitari e che si occupano di sviluppo hanno la capacità di esercitare pressione sui media internazionali e, a volte, anche sui Governi.
Le considerazioni di cui sopra, provenienti dai rifugiati, sollevano una questione fondamentale: quali sarebbero i luoghi più sicuri e adeguati per mettere in atto l’impresa di educare i Paesi ospitanti? In molte città l’accoglienza dei rifugiati è altamente politicizzata e viene regolarmente strumentalizzata dai detentori del potere locale per guadagnare elettori.
Una domanda che bisogna porsi è se davvero l’empatia possa essere “insegnata”. Tuttavia, sebbene la risposta a una domanda del genere sia piuttosto complessa, accettare lo status quo non è un’opzione.
Per fare un esempio, la presenza di programmi educativi ufficiali sull’emigrazione forzata nei Paesi di accoglienza aiuterebbe a combattere pubblicamente l’incitamento all’odio e a ispirare la comprensione della gente fornendo un quadro storico e giuridico sull’accoglienza dei rifugiati.
Attività ed eventi informali vengono organizzati spesso in città che ricevono un gran numero di migranti forzati, sia nel Nord che nel Sud del mondo.
In Europa, alcune città e paesi ospitano eventi gestiti dagli stessi comuni o iniziative portate avanti da gruppi con lo scopo di promuovere l’integrazione attraverso attività culturali o il dialogo interreligioso.
In città come Beirut e Istanbul, gli attivisti locali hanno organizzato numerose attività come la proiezione di film sulla Siria e tavole rotonde sull’argomento, allo scopo di sensibilizzare la società civile. Eppure queste iniziative spesso non riescono a raggiungere tutti i gruppi sociali e, inoltre, mancano ancora della comunicazione ufficiale sull’emigrazione forzata.
La responsabilità e la capacità di integrarsi e di essere inclusi sono, invece, esclusivamente ascritte agli stessi rifugiati. Paradossalmente,le società che ricevono i rifugiati sono ufficialmente definite “Paesi d’accoglienza”, senza però che accolgano attivamente.
Non si tratta di rifiutare l’importanza dell’integrazione e dell’inclusione nelle società contemporanee, ma piuttosto di battersi per la sana convivenza e la conoscenza reciproca tra gli abitanti di vecchia data e i nuovi arrivati in quelle società.
La comunità internazionale deve applicare la formula riguardante la “capacità di integrazione” non tanto ai rifugiati quanto ai Paesi ospitanti, e prendere atto della necessità di un progetto reale, con percorsi educativi obbligatori e a lungo termine.
Alcuni potrebbero vedere questo invito a educare il Paese ospitante come una mossa ideologica e, di conseguenza, opinabile, ma la verità è che a prescindere da che lo si voglia o no, le persone continueranno a spostarsi, e la sostenibilità del benessere di tutti non può che essere una questione condivisa.
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