Di Anna Pozzi su Avvenire
«Ci sono ragazzi che partono senza sapere cosa li aspetta. Alcuni arrivano in Marocco e pensano di essere già in Europa. Invece, il peggio deve ancora cominciare!». Un velo di tristezza adombra per un attimo gli occhi di Nafy Konaré che solitamente sono luminosi e fieri. Esprimono tutta la caparbietà e l’entusiasmo di questa giovane donna che ha deciso di intraprendere una strada “al contrario”: quella di una migrante di successo in Europa che è tornata nel suo Paese, il Senegal, per investire nell’agricoltura. «E’ questo il futuro – si dice convinta nella sua casa di Thiès, a est di Dakar – sia per dar da mangiare a questo Paese molto vulnerabile dal punto di vista della sicurezza alimentare, sia per frenare i flussi migratori di tanti giovani che partono con la sola idea di partire».
Sognano l’Eldorado e finiscono all’inferno. E’ quello che è successo lo scorso 24 giugno a ridosso dell’exclave spagnola di Melilla, dove sono morte 37 persone. Ma è quello che succede continuamente anche lungo la rotta marittima verso le Canarie, una strage quotidiana e invisibile di migliaia di giovani africani che tentano la traversata su fragili piroghe. Sono già quasi 9mila quelli sbarcati nel 2022, ma nessuno sa esattamente quanti ce l’hanno fatta. Quella di Nafy e della sua famiglia, che ha creato KonaTrans, una società di produzione, trasformazione e trasporto di prodotti alimentari – tra cui il fonio, un cereale tipico dell’Africa Occidentale, recentemente riscoperto per le sue proprietà nutritive – è una delle tante storie di impegno dal basso che si incontrano in Senegal. Storie di coraggio, di fatiche e di lotte. Per Nafy, come per molti altri, non si tratta solo – ed è già tanto – di contrastare l’impatto dei cambiamenti climatici sull’agricoltura e di far fronte ai troppi impedimenti e ai pochi finanziamenti: è anche una battaglia culturale per cambiare una mentalità diffusa specialmente tra i giovani che considerano degradante il lavoro nei campi e preferiscono partire, andando a ingrossare i flussi migratori interni – che stanno facendo esplodere le periferie sempre più sterminate e degradate di città come Dakar – e quelli verso l’Europa.
Ababacar Diouf è stato in un certo senso un “pioniere” della migrazione verso l’Italia, che si è ingrossata sino a fare della comunità senegalese la prima subsahariana con le sue 111 mila presenze. Diouf è arrivato nel nostro Paese nel 1979 per studiare Agraria a Firenze e poi tornare a Dakar. Oggi lavora come capo dipartimento al ministero dell’Agricoltura. «Una delle questioni che ci preoccupa di più – spiega – è la gestione dell’acqua. La nostra agricoltura è strettamente legata alle precipitazioni che sono sempre più irregolari. Già da dieci anni lavoriamo su cambiamento climatico, agricoltura e insicurezza alimentare. E già diverse volte siamo dovuti intervenire con piani straordinari».
Il suo ministero, in collaborazione con l’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (Aics), ha avviato nel 2021 un importante programma triennale denominato Piesan nella zona delle Niayes. «Si tratta di un progetto di agricoltura eco-sostenibile – spiega Serigne Cissé, consigliere del ministero per Piesan – che mira ad appoggiare gli agricoltori, in particolare giovani e donne, affinché possano migliorare le produzioni, il trasporto e le vendite e unirsi in cooperative per diventare più forti». L’obiettivo è anche quello di fornire strumenti e competenze per far fronte ai cambiamenti climatici, alla salinizzazione della terra e all’utilizzo abusivo di pesticidi, ma anche di creare lavoro e promuovere la salvaguardia dell’ambiente. «Sono coinvolti anche giovani che pensavano di emigrare e altri che sono di ritorno. Un po’ alla volta si rendono contro che attraverso l’agricoltura possono vivere meglio loro e le loro comunità».
Ci sono anche diverse ong italiane che lavoro in questo ambito: come Cospe, Lvia e Cisv, che hanno da poco concluso il progetto Migra (Migrazioni, Impiego, Giovani, Resilienza, Auto-impresa) nelle regioni meridionali, al confine con Guinea e Guinea-Bissau, coinvolgendo pure migranti di ritorno, che spesso soffrono lo stigma sociale del fallimento, oltre ai traumi del viaggio. Queste regioni sono potenzialmente più ricche d’acqua, rispetto a quelle del centro e del nord, ma anche qui si è sentito, insieme ai cambiamenti del clima, l’impatto del Covid-19. «In tutti i settori che abbiamo analizzato – agricoltura, allevamento, pesca, ma anche ristorazione, artigianato e trasporti – abbiamo notato come siano state colpite principalmente le imprese più piccole e meno strutturate. Tutto ciò si è tradotto in un calo importante delle attività», precisa Anna Meli, responsabile comunicazione di Cospe, in missione in queste terre.
Terre dalle grandi potenzialità, ma anche estremamente fragili, dove si vede in maniera ancora più evidente l’intreccio di cause ed effetti del clima impazzito, anche di conflitti e instabilità, di speculazioni e sperequazioni, dei contraccolpi della pandemia e di quelli della guerra in Ucraina, con migliaia di tonnellate di cereali bloccate nei porti, mentre nel mondo cresce l’allarme- fame e l’esodo forzato di popolazioni. Il Senegal, del resto, si colloca proprio sul margine occidentale di quella vasta ragione del Sahel e dell’Africa Occidentale che oggi è tra le più a rischio al mondo. Quest’anno le previsioni delle agenzie internazionali sono particolarmente catastrofiche: si stima, infatti, che tra giugno e agosto più di 38 milioni di persone saranno in situazioni di crisi alimentare, con particolari criticità nelle aree interessate da crisi e insicurezza. Anche in Senegal c’è molta preoccupazione. Il Paese – che è uno dei pochi stabili nella regione – sta vivendo settimane di fibrillazioni politiche e di manifestazioni talvolta violente, in vista delle elezioni legislative di fine luglio. Ma se a Dakar si respira un po’ di questa tensione, nelle aree rurali lo sguardo è rivolto innanzitutto verso l’alto a scrutare il cielo in vista delle attesissime piogge stagionali.
«Quest’anno nel Sud sono arrivate in anticipo di due settimane – spiega il responsabile del servizio meteorologico dell’aeronautica militare senegalese (Anacim), Diabel Ndiaye – ma nel 2020 il gioverno ha dovuto mettere in campo un piano d’urgenza per la sicurezza alimentare a causa della siccità. La situazione climatica è sempre più instabile». Il grafico che ci mostra non lascia spazio a dubbi: dall’inizio del secolo scorso sino agli anni Novanta, si susseguono con regolarità strisce azzurre, che un po’ alla volta si alternano a strisce arancioni e rosse, sino a diventare progressivamente di un unico colore bordeaux sempre più scuro. «L’innalzamento delle temperature – ci dice – è un’evidenza- Ma a creare molti problemi sono anche l’imprevedibilità delle precipitazioni e i fenomeni meteorologici estremi, così come la salinizzazione e l’erosione delle terre».
Sidy Sarr sa bene cosa significa tutto questo. «Sono loro che mi danno da vivere! – esclama mentre ci mostra orgoglioso i suoi campi lussureggianti -. Occorre però modernizzarci. Non possiamo più affidarci solo alle piogge». Lui, infatti, si affida al sole. Accanto a una vasca piena d’acqua, c’è un piccolo impianto solare che fa funzionare la pompa e l’irrigazione. «L’altra grande forza sta nel non rimanere isolati». Lui, ad esempio, è vice segretario di una cooperativa con circa cinquemila iscritti: «Lo sviluppo – dice – si fa insieme!».
Hanno collaborato Codou Loum e Anna Sarr nell’ambito del progetto Nouvelles Perspectives.
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