A un anno dalla morte di Alan Kurdi, la cui foto ha emozionato tutto il mondo, una riflessione sui sentimenti effimeri che accompagnano i casi mediatici
Di Vittorio Di Trapani, per Articolo 21
Vi ricordate in queste ore un anno fa che oceano di parole per questa foto? Improvvisamente il “grande pubblico” si accorse che in mare si muore. Che gli “invasori” erano anche questi pericolosissimi bambini. E quindi giù tutti a pubblicare, twittare, commentare. E allora così anche la comunità internazionale scoprì che esisteva il tema dei migranti.
Vale la pena dire che da lì – tra le altre cose – scaturì un accordo multimiliardario con la Turchia di Erdogan, che intanto dava una bella stretta al bavaglio alla stampa e alle libertà.
E poi? Quali altri risultati? Quell’oceano di parole ha fermato le stragi in mare? Ha fermato l’ecatombe di bambini? Ha impedito che ci fossero ancora altri Aylan che però non abbiamo visto? No. No. E ancora no. Oltre 500 volte no.
Perché da allora oltre 500 bambini sono morti in mare. Oltre 500. E noi?
Abbiamo smesso di indignarci. Perché l’estate è finita. E avevamo altro a cui pensare. Altro a cui dedicare i nostri giornali, Tg, giornali radio.
Settembre è il mese dei propositi? E allora riproponiamoci di non deporre l’indignazione. Ad esempio quella per Omran, il bimbo ferito ad Aleppo (in Siria) che abbiamo visto, rivisto, pubblicato su facebook, su twitter, ovunque… Perché gli “Aylan” fuggivano e fuggono proprio dall’orrore delle guerre che abbiamo visto negli occhi di Omran.
E allora conserviamo dentro di noi l’indignazione. E usiamola per chiedere alla comunità internazionale di intervenire. Ai governi di agire.
Usiamola per raccontare nei nostri tg, nei nostri giornali radio. Come tante brave colleghe e colleghi già fanno. Usiamola per rompere il muro dell’indifferenza.
Per sconfiggere quella che Papa Francesco definì la globalizzazione dell’indifferenza.