Di Laura Berti, per Articolo21
Parliamo di scontro fra civiltà. Brutalità e terrore. Di camion strabordanti di lugubri stoffe nere usate come abiti o bandiere. Mostriamo immagini che sono spot pubblicitari dal sapore trionfale accompagnati da cori solenni e poderosi. Scritte indecifrabili per i più, la cui incomprensibilità ne aumenta austerità e carattere definitivo. E poi, i racconti dell’orrore, decapitazioni, lapidazioni, violenze sulle donne, sugli uomini. Sui bambini. E mostriamo anche ragazzini che uccidono, che “giustiziano” di fronte ad un pubblico di famigliole… E il terrorismo di Is arriva sempre più vicino e può colpire ovunque, nei musei come sulla spiaggia. Mostriamo la sabbia intrisa di sangue.
Di questo scriviamo. Questo raccontiamo. Con dovizia di particolari, con termini e spettacolarizzazioni che amplificano la paura ed affascinano alcuni ragazzi figli di immigrati cresciuti all’occidentale ma ai margini di società che non hanno saputo o voluto integrarli. Non solo. Questo incutere terrore, queste regole e leggi spietate e rigidissime attirano anche alcuni giovani occidentali spaventati dal vuoto di un futuro incerto, orfani di una qualunque ideologia e avidi di contenimento spirituale di modelli da seguire.
Sul ruolo dell’informazione in tutto quanto sta accadendo vale la pena di ragionare. Uno stimolo a riflettere, almeno a livello lessicale, arriva dalla Gran Bretagna, dall’intervento di Rehman Chishti, deputato conservatore di origine pakistana che ha introdotto una mozione alla camera dei comuni in cui si chiede alla Bbc di non trattare in modo imparziale il fenomeno Is. «Da troppo tempo abbiamo permesso loro di autodefinirsi qualcosa che non sono”, ha detto. […] Se lo chiamiamo stato islamico diamo legittimità e credibilità alla loro propaganda. La verità è che non sono uno stato e non sono davvero islamici. Uno stato per essere tale deve essere internazionalmente riconosciuto […] Questo gruppo non ha niente di tutto ciò (..) Sono una banda di criminali – ha continuato Chishti – non sono seguaci dell’islam. Tutte le loro azioni e i loro proclami sono una distorsione di una religione pacifica».
La richiesta è definire l’Is “daesh“, termine arabo che significa “colui che semina discordia”. Una richiesta sulla quale, nel nome della liberta’ dell’informazione e della sua imparzialità, la Bbc non è d’accordo: «se usassimo quella definizione – ha detto il direttore generale della tv britannica Tony Hall – daremmo l’impressione di appoggiare gli avversari dell’Is e perderemmo l’imparzialità che caratterizza la nostra informazione. Continueremo a usare altre definizioni per Is, tra cui estremisti, combattenti, militanti, ma non daesh».
Ecco, su questo credo dovremmo interrogarci: quale può essere il ruolo dell’informazione in frangenti simili? E come fare se una ideologia arcaica come quella di Is sfrutta sia i mezzi tecnologici (frutto e strumenti di un sistema che pure afferma di disprezzare) sia la libertà di informazione , uno dei valori fondanti della nostra democrazia?
La realtà è che ogni volta che in un articolo, in un tg o alla radio vengono raccontate le imprese di Is, è possibile che da qualche parte ci siano un ragazzo o una ragazza soli, annoiati o disperati, attanagliati dal vuoto esistenziale e pronti ad abbracciare il senso tragico ed eroico dell’esistenza. Da una parte la censura totale su questi fatti è ovviamente inconcepibile. Ma, allo stesso modo, anche il pensiero di essere utilizzati come strumenti di propaganda e’ insopportabile. E anche immorale nel momento in cui ce ne rendiamo conto.
Non censura, dunque, ma una autoregolamentazione i cui termini dovrebbero essere discussi con attenzione non solo a livello italiano ma europeo. Certo è difficile l’equilibrio fra il dovere di raccontare ed evitare di farsi strumento di propaganda per sensazionalismo o disattenzione. Forse ascoltare le storie delle migliaia di profughi, lasciare loro la parola, riportare ad un livello di umanità quanto sta accadendo, oltre ad avere un valore etico, forse toglierebbe all’Is l’aura di invincibilità, di fierezza e coraggio. Mostrare insomma solo la verità dell’orrore senza indugiare su certe modalità di uccisione che sappiamo scelte appositamente per alimentare mito e terrore.
Dare di nuovo valore alla vita di ogni singola persona e alla sua storia potrebbe essere un antidoto contro la paura e l’anestesia delle coscienze. Raccontare di più la sofferenza, gli stenti e i soprusi di chi viene perseguitato come gli yazidi, per fare un esempio, potrebbe restituire la giusta dimensione all’Is e la dignità a chi sta facendo le spese di un progetto geopolitico che poco ha a che fare con la religione.
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