Di Roberto Nardi su Ansa
Lesley Lokko, architetta e scrittrice, scozzese di origini ghanesi, fondatrice nel 2020 in Ghana ad Accra dell'”African Futures Institute”, una scuola di specializzazione in architettura, sceglie due parole, “laboratorio” e “futuro”, per il titolo della 18ma Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia e pone al centro della sua proposta l’Africa. “Il continente più giovane del mondo”, dove le questioni che ci assillano l’oggi sul destino dell’umanità e della Terra – sociali, politiche, ambientali, legate alla mancanza d’acqua ed energia, sanitarie – sono già da tempo presenti, sarà il “protagonista”, il punto da cui guardare il mondo, della rassegna in programma dal 20 maggio al 26 novembre 2023, tra i Giardini e l’Arsenale e altri spazi della città lagunare con i padiglioni nazionali.
Inutile fare giri di parole per spiegare le ragioni della scelta: “qui in Europa – dice la curatrice – parliamo di minoranze e diversità, ma la verità è che le minoranze dell’Occidente sono la maggioranza globale; la diversità è la nostra norma. C’è un luogo in cui tutte le questioni di equità, risorse, razza, speranza e paura convergono e si fondano. L’Africa. A livello antropologico, siamo tutti africani. E ciò che accade in Africa accade a tutti noi”.
“Il laboratorio del futuro”, recita il titolo della mostra – le cui linee guida sono state presentate dalla curatrice e dal presidente della Biennale Roberto Cicutto – sarà una sorta di “bottega artigiana” che guarda all’architettura di domani, nel senso più ampio del termine, e parte da un punto di vista dell’Africa come spazio di elaborazione, messa in prova del futuro, ampliando la visione sull’intero pianeta attorno a temi propri del vivere insieme, del destino dell’umanità, della natura. L’Europa, quella parte del mondo che negli ultimi decenni ha cullato “un falso senso di sicurezza”, per la curatrice, si è trovata costretta a confrontarsi “con le stesse questioni riguardanti la terra, la lingua e l’identità che in molte parti dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente sono state e sono tutt’ora una costante”. Sulla scena così sono comparsi temi come “decolonizzazione” e “decarbonizzazione”, che sembrano “macrofenomeni” ma che si riflettono “a livello microscopico negli aspetti più intimi della nostra vita quotidiana”. Il tutto senza dimenticare la storia, la tragedia della schiavitù, e la curatrice ricorda: “con tutti i discorsi sulla decarbonizzazione è facile dimenticare che i corpi neri sono stati le prime unità di energia ad alimentare l’espansione imperiale europea che ha plasmato il mondo moderno. Equità razziale e giustizia climatica sono due facce della stessa medaglia”. Il dono dell’architettura – per Lesley Lokko – “è la capacità di influenzare il nostro modo di vedere il mondo”, con l’aiuto anche delle nuove tecnologie. Da qui, il bisogno di puntare l’attenzione sull’Africa, in un modo non teorico ma concreto, per interrogarsi sul mondo. La curatrice, al momento, ha reso note le linee guida del “laboratorio”, c’è un anno per dare sostanza al progetto, per mostrare al pubblico che gli architetti, nel segno della speranza, “sono attori chiave nel tradurre le immagini in realtà”. Roberto Cicutto si dice convinto che la mostra di Lesley Lokko – già in membro della giuria internazionale della passata edizione della Biennale, “How Will we live together” di Hashim Sarkis – non sarà “teorica, ma sarà una Biennale dove gli aspetti fisici, concreti, saranno molto forti e coinvolgenti”. Una mostra, dove, uscite di scena le grandi firme del mondo globale, probabilmente si guarderà a come si irriga, a come ci si difende dal caldo e dal freddo, a come si vive insieme in spazi difficili, come si riesce a essere curati in tempi brevi “in posti così desertificati” (a dirla con le parole del presidente della Biennale).
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