Lo smalto sul corpo di Josefa introduce un elemento di rottura nell’immagine del “corpo vittima” a cui siamo abituati e che riconosciamo: un corpo dilaniato, sofferente, mutilato. Questa è l’immagine della vittima per eccellenza, intorno a questa si mobilitano i contenuti che costruiscono il senso comune, e con questa ormai le istituzioni dialogano e la politica fa propaganda elettorale.
La questione dell’equità è oggetto di un campo di lotte complesso e assai contestato, difficile immaginare un ordine mondiale che a breve riuscirà a tenerne conto! Mentre l’immagine della “vittima” negli ultimi due secoli è diventata estremamente potente e da tutti condivisa; un oggetto politico difficile da ignorare, superare o negare: e se non può essere battuto allora deve essere in qualche modo manipolato, adattato, fatto proprio, a seconda degli scopi che si perseguono.
Gli operatori della ONG Open Arms cercano di attenuare il vissuto traumatico di Josefa (ovvero il suo essere appunto “vittima”) nel tentativo di ricordarle che è ancora una persona, una donna, che può essere altro dalla tragedia che ha vissuto; le mettono lo smalto per proiettarla in un mondo in cui c’è ancora spazio per il gioco, per la leggerezza; compiono un gesto di cura e affetto nei confronti di una persona sotto shock, nel tentativo di ancorarla nuovamente al presente. I detrattori sfruttano questo “indebolimento” dell’immagine di vittima per trarne un vantaggio politico, sottolineano l’ossimoro tra tragedia e leggerezza e lo utilizzano per erodere lo statuto di “vittima” che Josefa potrebbe incarnare e che, proprio in nome della ragione umanitaria, potrebbe farla accedere a diritti che non intendono invece concederle. Lo smalto di Josefa, così come la giornata in piscina organizzata poco tempo fa da un parroco per dei giovani richiedenti asilo o come gli smartphone di ultima generazione che alcuni di loro possiedono, vengono strumentalizzati per dimostrare la “pacchia” che viene loro elargita, negarne lo statuto di vittime e dunque legittimarne il rigetto.
Accendere i riflettori su un dettaglio che appare così insignificante come lo smalto, è un’operazione politica estremamente potente, perché quel dettaglio ha la capacità di incrinare l’immagine della vittima e la sua efficacia emotiva, mira a produrre una sorta di estraniamento tra la vittima e l’osservatore e ad ostacolare il processo di identificazione e compassione con chi soffre. Quello smalto ha la capacità di espropriare questa donna anche della sua tragedia, di far dimenticare il terrore che ha provato e di cui i suoi occhi – che hanno così profondamente scosso l’opinione pubblica – sono stati testimoni.
È anche così che si insinua il dubbio e il sospetto su chi è legittimato a restare e chi no; se può restare solo chi è veramente vittima, ogni più piccolo elemento in grado di incrinare tale immagine diventa fondamentale e va messo bene in evidenza perché consente di non sentirsi moralmente compromessi se ci si schiera dalla parte di chi non vuole accogliere, condividere o “concedere”.
Questa d’altronde è la deriva più plausibile di un sistema che si regge sulla logica umanitaria e non sul riconoscimento universale dei diritti. Se ad amministrare il confine tra chi può avere e chi no, non è il criterio dell’equità ma il classismo – nelle sue molteplici forme –, e se la compassione resta l’unica (potente) deroga a tale logica, è inevitabile che lo statuto di vittima, che ne è al centro, sia bersaglio continuo di chi cerca di contrarne i confini; che ci sia chi insiste per dimostrare che l’altro non è una vera vittima e dunque “non merita”, e chi continua invece, anche in buona fede, a dire che lo è e che per questo merita di ricevere…
Maya Pellicciari
Sabrina Flamini
(antropologhe, Centro studi antropologici su corpi, generi e modificazioni genitali “Maka”)
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