Di Anna Spena su VITA
La Libia è una spirale di abusi. Partiamo da due dati sintetici: nel Paese ci sono 621mila migranti, di oltre 43 nazionalità diverse (dati Oim aggiornati a novembre 2021); 4300 persone si trovano nei centri di detenzione. Partiamo anche dal fatto che questi, pur essendo dati ufficiali, non rappresentano la realtà: il numero di persone bloccate nel Paese è più alto, ad oggi è impossibile averne contezza. Cosa sappiamo invece? Che la Libia non è un Paese sicuro.
Lo scorso primo ottobre sono iniziati i rastrellamenti nel quartiere di Gargaresh. Sono stati arrestati circa 5mila migranti. Da quel giorno circa 600 persone hanno iniziato a protestare pacificamente all’ingresso del Community Day Centre dell’Unhcr. In alcuni momenti la protesta ha coinvolto fino a tremila persone. Proteste andate avanti fino a qualche giorno fa quando la polizia e i miliziani si sono scagliati contro i rifugiati: 565 persone sono state arrestate e deportate nei campi di detenzione. Cosa chiedevano i rifugiati? Solo di essere trasferiti in un Paese sicuro.
“Sono un richiedente asilo registrato presso l’unhcr e vivevo a Gargaresh quando improvvisamente ci hanno attaccato, siamo stati portati in prigione, poi siamo fuggiti e abbiamo fatto un sit-in al CDC per chiedere protezione. Ci sono voluti 3 mesi solo in attesa di un altro attacco”, si legge sul profilo twitter di Refugees in Libya. E ancora “C’è una situazione assolutamente disumana al centro di detenzione di Ain Zara ora. In centinaia sono tenuti in un hangar in un luogo non adatto alla vita. Anche quando le mucche sono accampate nel recinto a loro è concesso uno spazio dove fare i loro escrementi e uno spazio per muoversi. Non è così per i rifugiati innocenti, loro sono considerati niente”.
Qualcuna delle persone presenti alla protesta pacifica è riuscita a scappare, in molti sono rimasti feriti. Medici Senza Frontiere ne ha soccorse 68. «Ferite di arma da fuoco, ferite da taglio, contusioni dovute alle bastonate,un minore ci ha racconattao di essere stato calpestato», racconta Giorgia Linardi, advocacy manager in Libia per Msf. «La maggior parte delle persone che protestavano sono state portate nel centro di detenzione di Ain Zara, ma a molte di loro era già stato riconosciuto lo status di rifugiato». L’organizzazione lavora nel Paese dal 2016 e fornisce assistenza umanitaria e sanitaria nei centri di detenzione di Tripoli, Misurata, Khoms, Zliten e Dhar El-Jebel, l’ong si occupa principalmente delle patologie derivanti o aggravate dalle disastrose condizioni igieniche.
Medici Senza Frontiere assiste i migranti anche nel centro di Ain Zara: «Il centro è sovraffollato», spiega Linardi. «Ci sono molte donne e bambini. Le persone non vengono nutrite a sufficienza, non ci sono materassi a cui appoggiarsi per tutti, le persone non hanno vestiti adeguati per l’inverno, non hanno scarpe, la struttura è fatiscente. Un nostro paziente che dormiva rannicchiato vicino al bagno ha raccontato di essere stato calpestato dalle persone che dovevano usufruire. Visitiamo questo, e gli altri centri in cui lavoriamo, almeno una volta alla settimana. Ma la situazione è in continua trasformazione».
Le équipe di msf si occupano di individuare casi vulnerabili e di trasferire i pazienti che necessitano di cure specialistiche in ospedale, offrono supporto psicologico, assistono le persone agli sbarchi dopo le intercettazioni in mare, e curano i malati di tubercolosi nella città di Tripoli. «Abbiamo davanti una situazione disperata», dice l’advocacy manager di Msf. «Quelle che noi vediamo sono persone che non hanno nessuna alternativa o possibilità di lasciare il Paese in modo sicuro e legale. Non ci sono vie d’uscita e gli arresti di massa sono l’emblema della condizione dei migranti e dei rifugiati in Libia. Le persone vivono in condizioni indicibili, dopo i raid di Gargaresh, le proteste all’ingresso dell’Unhcr erano la loro ultima speranza. Sono persone che confidano nel sistema di protezione internazionale per essere supportate. Ma di fatto questo sistema, ad oggi, ancora non è stato in grado di dare risposte adeguate».
Arrivano dal Niger, dall’Egitto, dal Sudan, dalla Siria e sono bloccate in Libia perché: «si continua ad investire sulla politica di esternalizzazione. Chiunque provi a lasciare il Paese, una volta in mare, non viene soccorso dalle autorità europee ma intercettato dalla guardia costiera libica, finanziata dall’Unione Europea, e rispedito nella spirale di abusi. Invece dobbiamo ascoltare le richieste di queste persone. Chiedono di essere trattate come essere umani, chiedono protezione, chiedono di essere evacuate».
Immagine in evidenza di Maya Abu Ata/MSF
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