Di Ernesto Pagano
Se ti dico Napoli e islam a cosa pensi? «Spazzatura e immigrati», potrebbe essere la risposta di molti (laddove la parola immigrati vive sullo stesso gradino della parola spazzatura).
Sotto il trailer di Napolislam, il documentario che ho realizzato con Ladoc e Isola film uscito in sala quest’estate, si condensa in una serie di commenti xenofobi (uno per tutti: «Ci mancava solo l’Islam laggiù») un certo sentire comune attorno a due vocaboli che circolano nella nostra opinione pubblica con un sovraccarico di stereotipi. Napolislam nasceva, tra le altre cose, per combattere questi stereotipi. Cosa succede se a essere musulmani non sono genericamente gli immigrati, ma i napoletani? Succedono cose che fanno sorridere (tipo le sfogliatelle halal), cose che fanno riflettere (tipo l’ex militante dei disoccupati organizzati che adesso crede solo nella via del Corano per portare giustizia sociale a questo mondo), cose che forse sollevano domande e non danno risposte (mettersi il velo, quando si è cresciute libere di esporre il proprio corpo, come mai?).
Napolislam è concepito come un’operazione culturale che tenta, con tutti i limiti del caso, a dare maggiori elementi per farci un’idea su un tema, quello dell’islamizzazione, che desta molte inquietudini, in cui si sovrappongono concetti che forse andrebbero separati e analizzati uno a uno.
Ma Napolislam è anche diventato un servizio di Dalla Vostra parte (Rete 4), che andava in onda la settimana scorsa. Il servizio si appropria del titolo del documentario e lo rigira di nuovo nel senso dello stereotipo: «immigrati e spazzatura». Napolislam diventa, insomma, un luogo dell’orrore. La musica parossistica, inquietante, del servizio della giornalista di Rete 4 che si addentra nei vicoli di piazza Garibaldi, crea già un tappeto sonoro adeguato all’atmosfera dell’incubo. «Qui il quartiere non è più lo stesso da quando ci sono gli immigrati, soprattutto arabi», dice la giornalista. Intanto scorrono immagini di spazzatura, venditori abusivi (pare di scorgere parecchi napoletani dietro le bancarelle), l’insegna della moschea di piazza Mercato. «Qui i napoletani sono scappati via», racconta la giornalista. Forse non sa che nella moschea di piazza Mercato pure l’Imam è napoletano e, come se non bastasse, le uniche storie che trova opportuno raccontare non sono di questi «napoletani scappati via dagli immigrati», ma di due napoletane del quartiere sposate con dei bengalesi (non arabi, ma pur sempre musulmani). Una di queste convertita all’islam, l’altra in procinto di farlo. «E perché non è tuo marito a convertirsi al cristianesimo?», domanda la giornalista. «Ci sono cose che non sono giuste”, risponde la ragazza (chissà cosa avrà voluto dire oltre la troncatura del montaggio). Insomma si capisce che questo islam obbligherà la donna a velarsi perché qui c’è una colonizzazione in atto, e i poveri cittadini napoletani o scappano, oppure si convertono all’islam. Questo nel succo il messaggio che mi arriva da Napolislam versione Rete 4. Ma avendo passato mesi in quelle strade e in quei quartieri per raccontare Napolislam, appunto, mi porto dentro la consapevolezza di una realtà ben più complessa. Di fronte alla moschea, ad esempio, abita una signora, devota a padre Pio, soprannominata Maria la musulmana, perché prepara caffè e pasti ai frequentatori della moschea durante il Ramadan. Suo figlio va a farsi barba e capelli dal barbiere algerino della moschea, perché è bravo e costa poco.
Certo, quando dei bengalesi hanno provato ad aprire un’altra moschea-garage nel quartiere, dai balconi i dirimpettai tiravano ogni genere di cose dalle finestre. Anche a piazza Mercato, i primi anni di insediamento della moschea, lo stesso figlio di Maria la musulmana è arrivato quasi alle mani con dei frequentatori della moschea. Poi è finito per giocarci a calcetto in mezzo alla piazza. Lui, che vende calzini per strada a piazza Garialdi (fa l’abusivo, proprio come “gli immigrati arabi” del servizio di rete quattro), riceve pure l’elemosina rituale dalla moschea durante il Ramadan.
L’integrazione (perché volente o nolente di questo si tratta) è un processo complicato del cui racconto forse un giornalista dovrebbe farsi carico, a prescindere dalle sue idee politiche (ammesso che di questi tempi sia ancora lecito averne). Ma di questo racconto non trovo alcuna traccia in quel servizio che, cosa che brucia, si è appropriato del titolo di un altro lavoro per veicolare messaggi già scritti nell’agenda di partiti che conosciamo bene.
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