Di Maurizio Ambrosini su Avvenire
Sono passati trent’anni dall’approvazione dell’attuale legge sulla cittadinanza, la legge 91 del 5 febbraio 1992. Già allora l’Italia si era scoperta multietnica, soprattutto per effetto dell’ampio dibattito attorno alla legge Martelli del 1990 e alla sanatoria correlata. Eppure, la reazione del sistema politico, pressoché unanime, fu quella di guardare al passato, riconoscendo una serie di diritti a figli e nipoti degli antichi emigranti italiani, guardando con favore ai concittadini della Ue (che, pure, della cittadinanza italiana non avevano bisogno), ma raddoppiando il tempo richiesto per diventare cittadini agli immigrati provenienti da Paesi extracomunitari: da cinque a dieci anni.
Nemmeno il fascismo aveva preso una misura del genere, essendo la legge precedente (quella dei cinque anni) in vigore dal lontano 1912. Il fatto che nella maggior parte dei Paesi dell’Europa Occidentale (Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Svezia…) oltre che negli Usa, vigesse la soglia dei cinque anni non scalfì l’improvvisa sete di italianità ancestrale dei nostri legislatori, trascinati all’epoca dalle argomentazioni parlamentare missino Mirko Tremaglia.
Iniziarono tempi duri anche per i figli degli stranieri residenti: la legge riconosceva loro la cittadinanza solo al compimento della maggiore età, a patto che – nati qui – fossero sempre vissuti in Italia. Sei mesi passati, anche in tenera età, coi nonni nel paese di origine della famiglia o, più grandi, all’estero per un qualsiasi motivo bastavano a sbarrare la strada.
Da allora molti flussi di persone sono passati attraverso frontiere, sanatorie, dinamiche familiari. La popolazione immigrata, stagnante nei numeri da circa dieci anni, si è attestata poco sopra i cinque milioni di persone, in prevalenza donne. È composta oggi prevalentemente di famiglie ricongiunte, in cui vivono circa un milione di minorenni. In altri Paesi europei, come Germania, Spagna, Grecia, nel frattempo le norme sono state riformate in senso più favorevole agli immigrati, sebbene con cautela.
Lo Ius soli automatico, alla nascita, per tutti, non esiste più in nessun Paese europeo, ma le norme complessivamente vanno incontro al desiderio d’integrazione delle nuove generazioni. In Spagna per chi nasce sul territorio è sufficiente un anno di residenza. In Germania si applica lo Ius soli a condizione che almeno uno dei genitori sia residente da almeno otto anni e in possesso di un permesso a tempo indeterminato. In Grecia è stata introdotta una forma di Ius culturae: cittadinanza a chi ha frequentato almeno sei anni di scuola.
Solo l’Italia è rimasta ferma al palo, prigioniera di un dibattito insieme ideologico e dominato dalla paura di un’«invasione» mai avvenuta. Deteniamo ora il poco invidiabile primato di Paese più restrittivo dell’Europa occidentale sulla materia. Anche ai legislatori idealmente più aperti a una ragionevole riforma – quella, a suo tempo, definita dello Ius culturae con elementi di Ius soli temperato – manca il coraggio di affrontare un dibattito pubblico in cui temono di essere sovrastati dalle urla di chi griderebbe al «tradimento» di un’identità italiana basata sul sangue (e rivolta sostanzialmente al passato).
Anzitutto, nonostante norme tanto sfavorevoli, un volume di cinque milioni di residenti stranieri, ormai insediati da anni, produce naturalmente ogni anno un numero consistente di candidati eleggibili per la naturalizzazione. Gli ostacoli non mancano (ricordiamo che il Ministero dell’Interno mantiene un potere discrezionale sulla materia, e può bastare molto poco per vedersi rigettare l’istanza) e i tempi sono lunghi.
Molti si scoraggiano, ma un bel numero di domande di cittadinanza ogni anno vanno in porto: 132.736 nel 2020, pari al 26,4 per 1.000 stranieri residenti. In secondo luogo, un numero considerevole di neo-cittadini si serve del nuovo passaporto italiano (ed europeo) per compiere una nuova emigrazione. Si prende la via di Paesi più promettenti: 228.000 nel decennio 2010-2019, su un totale di 898.000 (Dossier immigrazione 2021). Paradossalmente, chi vorrebbe veder diminuire il numero degli immigrati dovrebbe facilitare la loro naturalizzazione. In terzo luogo, come osservano Salvatore Strozza, Cinzia Conti ed Enrico Tucci su ‘Neodemos’, non è affatto detto che tutti gli stranieri residenti facciano la fila per diventare italiani appena se ne dischiuda l’opportunità.
Vivono in Italia oltre 1,1 milioni di stranieri con un’anzianità di presenza di oltre 15 anni che non hanno acquisito la cittadinanza. Ed è giusto che sia così: diventare cittadini dovrebbe essere una scelta, non una condizione per accedere a qualche diritto in più. Da questo punto di vista, il fatto che l’impiego pubblico continui a essere precluso agli stranieri, persino ai medici e infermieri in tempi di Covid, ha l’effetto paradossale di spingere verso la cittadinanza chi magari preferirebbe farne a meno.
Resta il paradosso di ragazzi a cui si chiede di studiare lingua, letteratura, storia, geografia e Costituzione italiane, per centinaia di ore all’anno, ma a cui si chiudono le porte della piena appartenenza nazionale, come minimo fino ai 18 anni. Ragazzi che poi scoprono l’inconveniente di essere ‘stranieri’ a casa loro quando vorrebbero andare in gita all’estero con i compagni, oppure praticare uno sport agonistico, e soprattutto quando si affacciano al mercato del lavoro, dove un numero innaturale di datori richiede la cittadinanza come requisito per l’assunzione.
Siamo in un anno pre-elettorale e gli slogan e le cattive approssimazioni minacciano ancora una volta di prevalere sulla realtà e sulla ragione. Abbiamo ancora molta strada da percorrere per diventare un Paese capace di consentire una vita normale a chi lo abita e lo vorrebbe riconoscere come sua patria. E per valorizzare tutto intero il suo patrimonio umano.
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