La tragedia del naufragio di Lampedusa, sei anni dopo, il racconto di ciò che avvenne e il progetto del memoriale
Di Valerio Cataldi su Articolo21
Quando chiedo ad Adal perché è importante ricordare, lui risponde con un tono pacato che “accade ancora, dobbiamo ricordare alla comunità internazionale che l’umanità ancora annega e ha bisogno di aiuto”. Adal ha perso il fratello più piccolo, Abraham, 27 anni. “Scappava dall’oppressione del regime eritreo, è sopravvissuto alle torture in Libia ed è annegato davanti Lampedusa, ad un passo dalla salvezza”, dice Adal guardandomi dritto negli occhi. Ha ragione Adal, succede ancora oggi: il regime eritreo ancora opprime, in Libia le milizie continuano a torturare, nel Mediterraneo si continua ad annegare: oltre 15 mila morti solo negli ultimi 5 anni, dal 2014, un anno dopo la strage che si commemora adesso, quella del 3 ottobre 2013.
Abraham, il fratello di Adal era su quel barcone che si è rovesciato a mezzo miglio dalle coste dell’isola di Lampedusa. Ora è sepolto nel cimitero di Mazzarino, nel cuore della Sicilia. Sulla lapide c’è ancora scritto il suo nome a penna, è stato Adal a scrivere il nome del fratello su quella lapide mentre la madre appena arrivata dall’Eritrea piangeva sullo sfondo. Non c’era scritto nulla, non un nome e neanche il numero del cadavere che avevano riconosciuto a fatica dopo giorni in mare, identificato solo grazie ad una piccola bibbia e ad un anello. Delle 368 vittime di quella tragedia solo 70 sono state identificate, quelle recuperate nelle prime ore dal naufragio e, quindi, ancora riconoscibili. Chi ci fosse davvero dietro quella lapide Adal in realtà non lo sapeva, ma continuava a scrivere, con forza, quasi incidendo il nome nel marmo con la penna, sperando che quel nome potesse dare un po’ di sollievo allo strazio di sua madre.
“È importante per le famiglie avere un posto dove piangere” dice Adal con il suo tono di voce lento ma deciso. E ancora oggi, sei anni dopo il naufragio del 3 ottobre, chiede le stesse cose: un posto dove piangere e ricordare e l’identificazione attraverso il dna per avere la certezza di piangere sulla tomba giusta.
L’esame del dna era stato promesso dalle autorità italiane ad un certo punto, ma non se ne è fatto più nulla. I corpi senza nome sono ancora sparpagliati in decine di cimiteri della Sicilia dove i familiari naufragano senza alcun soccorso, sulla terra come nel Mediterraneo.
Adal porta sul corpo i segni delle torture subite in Eritrea dopo che era stato rimpatriato da Malta assieme ad altri 250 ragazzi, ammanettati e messi su un aereo per Asmara dove li aspettavano i militari e le torture nella prigione sulle isole Dahlak. Prigione costruita dagli italiani e torture dal nome italiano come elicottero, otto, gesù cristo. L’eredità che abbiamo lasciato nelle nostre colonie.
Ma Adal è un uomo sereno, non pensa di avere un credito da riscuotere. Chiede solo un aiuto per fermare il pianto di sua madre: un luogo dove pregare e ricordare e la certezza di piangere di fronte la tomba giusta.
Adal, rifugiato, fratello di una delle vittime del naufragio del 3 ottobre, ha lanciato il suo appello dagli studi di un telegiornale. Il tg3 lo ha ospitato per una intervista e per una restituzione: la piccola somma che gli uomini della Squadra Mobile di Agrigento hanno trovato nelle tasche dei naufraghi. Poco più di mille dollari risparmiati dall’acqua di mare e conservati per sei anni nell’ufficio corpi di reato della Questura. Giovanni Minardi, dirigente della mobile si è occupato insieme ai suoi uomini dei riconoscimenti dei cadaveri, nei giorni seguenti al naufragio hanno accompagnato i familiari nell’hangar dell’aeroporto dell’isola dove erano conservati i corpi.
Io l’ho conosciuto in quei giorni Giovanni Minardi e l’ho incontrato tante altre volte. Anche quando abbiamo riaperto tutte le scatole dei reperti, gli oggetti appartenuti alle vittime del naufragio che erano stati svincolati per una mostra a Lampedusa voluta da Giusi Nicolini e inaugurata dal Capo dello Stato.
Quegli oggetti erano stati fotografati e repertati dagli uomini della Squadra Mobile di Agrigento, compresi i soldi che i naufraghi avevano in tasca.
Sei anni dopo quella piccola somma è stata svincolata e “assegnata in custodia” all’associazione Museo Migrante dalla Corte d’Appello di Palermo e il tg3 ha deciso di farsi carico di restituirla ai familiari delle vittime. È questo che succede in questi giorni di vigilia del sesto 3 ottobre dal 2013.
“Quei soldi potrebbero essere utilizzati per costruire il memoriale che le famiglie stanno aspettando” dice Adal nello studio televisivo. Giuseppina Paterniti, la direttrice del tg3 decide di mettere in piedi una raccolta fondi per assecondare quella richiesta, “una restituzione doverosa” la definisce.
Rai sociale da la sua disponibilità, aderisce l’Usigrai il sindacato dei giornalisti Rai e la Federazione Nazionale della Stampa. Si mettono in moto altre energie, si cerca un luogo, si studia un progetto.
I soldi appartenuti ai naufraghi vengono consegnati a padre Mussie Zerai, coordinatore delle comunità cattoliche eritree in Europa.
Il racconto si ferma a questo punto, è passata da poco la mezzanotte e da otto minuti è iniziato il 3 ottobre 2019.
A questa stessa ora sei anni fa, il barcone era senza motore a mezzo miglio da Lampedusa. Si avvicinava una barca che gli girava intorno senza soccorrere. Poi si avvicinava una seconda barca, i superstiti raccontano che avesse “luci istituzionali”, degli stessi colori di una motovedetta, ma non è stata mai identificata.
Alle tre e mezza lo scafista dava fuoco alla maglietta per attirare l’attenzione delle barche che uscivano dal porto di Lampedusa. Si incendiava il kerosene a terra, scappavano tutti su un lato.
Il barcone si rovesciava e colava a picco.
I primi soccorsi arrivavano ore dopo, con le prime luci dell’alba.