Anche questa settimana pubblichiamo nell’ambito della campagna “Una storia dietro ogni numero” pubblichiamo uno dei racconti di UNHCR. L’esperienza della famiglia siriana protagonista è stata raccolta da Iosto Ibba.
Porto Empedocle. Hamid e sua moglie Manaar non dimenticheranno mai il giorno in cui hanno deciso di partire dalla Siria. Qasim e Samar, i loro bambini, erano spaventati e curiosi, chiedevano ai genitori dove stessero andando, chi ci fosse ad aspettarli; non sono stati in grado di dare alcuna risposta, hanno preferito rimanere in silenzio. Stavano per abbandonare la casa e i luoghi in cui erano cresciuti. Le abitudini no, quelle le avevano già perse nel 2011, quando è scoppiato il conflitto nel paese.
La scelta di quel giorno, però, ha salvato loro la vita: «Veniamo da Homs, una città vicina al confine con il Libano» racconta Hamid. Homs è la terza città del paese, un punto di riferimento culturale della messo in ginocchio dagli scontri e dalla violenza nella regione. «Siamo riusciti ad attraversare la frontiera poche ore prima che venisse chiusa – aggiunge – Un colpo di fortuna». Seduti sul ciglio di un muretto nel porto della città siciliana, è Hamid a raccontare la loro storia. Fatima ed i due figli rimangono in silenzio, sono stanchi, si sono appena lasciati alle spalle 15 mesi di viaggio e la loro priorità non sembra quella di condividere gli ultimi anni della loro vita con degli sconosciuti.
Quando suo marito inizia a parlare di Homs, tuttavia, la diffidenza che ha accompagnato Manaar durante il viaggio lascia rapidamente il posto allo sdegno: «Dovevamo rimanere intere giornate senza bere – spiega – Ogni giorno migliaia di persone erano in attesa della loro razione d’acqua potabile e le poche volte che riuscivamo ad avere la nostra eravamo costretti a darla ai bambini mischiata con le spezie per evitare che ne chiedessero troppa».
Da Homs, come molte famiglie prima di loro, sono partiti in direzione del Libano: è lì che molte persone si dirigono, alla ricerca di un contatto che gli fornisca i documenti necessari e che gli permetta di espatriare. Spesso il viaggio inizia molto prima della partenza: i milioni di siriani costretti a fuggire dal paese contribuiscono a formare una comunità solidale e costantemente connessa con chi ha deciso di rimanere. Tra loro scambiano informazioni, consigli e aggiornamenti. A volte decidono anche dove e quando sia meglio fuggire.
Dal Libano sono arrivati in Egitto e, infine, in Libia. Arrivati nel paese però si sono resi conto che l’atmosfera era diversa. Parlandone, il viso di Hamid si contrae in una piccola smorfia: «La situazione lì è completamente fuori controllo. Non è un posto dove ci si può fermare e pensare di costruire un’altra vita».
Durante il viaggio si erano già affidati ad alcuni trafficanti, ma questa volta si trattava di attraversare il mare ed era richiesto molto denaro senza fornire in cambio alcuna rassicurazione. I risparmi rimasti sarebbero bastati per una, forse due persone e loro non volevano separarsi. A quelle condizioni non era possibile partire, così sono rimasti in Libia, con l’obiettivo di guadagnare soldi a sufficienza per far partire tutti i membri della famiglia.
Hamid ha lavorato un anno intero per guadagnare il totale pattuito con i trafficanti. «Mio marito guadagnava bene e i miei figli andavano a scuola – ricorda Manaar – Ma quel paese è una polveriera, la situazione peggiorava di giorno in giorno e noi non potevamo far correre un rischio del genere alla nostra famiglia. Tra i due mali abbiamo scelto il minore: la traversata del mediterraneo».
Dopo 15 mesi di viaggio, si trovano seduti nel piazzale del porto della città siciliana dove è stata allestita la zona di prima accoglienza. Sono arrivati insieme, proprio come volevano. I bombardamenti in Siria e i trafficanti in Libia non sono riusciti a spezzare la loro unità. Ora che sono arrivati in Europa il loro futuro non è più un punto interrogativo, non hanno dubbi: «Vogliamo andare in Svezia. Lì ci sono i nostri parenti, potremo chiedere asilo e protezione e probabilmente riusciremo a trovare lavoro».
Lo stesso giorno, a pochi chilometri da loro, un altro ragazzo Siriano parlava con un operatore dell’UNHCR ad Agrigento. Aveva appena compiuto il percorso inverso di Manaar e Hamid, partendo dalla Svezia in direzione Sicilia. Lui è uno dei sopravvissuti al naufragio del’11 ottobre 2013, quello in cui hanno perso la vita 268 cittadini siriani. In Svezia ha trovato una casa e un lavoro, qui in Italia invece non è riuscito a trovare uno dei parenti scomparsi l’ottobre scorso.
Le loro storie si sono solamente sfiorate, ma rappresentano due volti della stessa crisi, le speranze e il dolore di una popolazione colpita da un conflitto di cui sta tuttora pagando le conseguenze.
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