Di Ilaria Bomba
Water get no enemy. È sulle note di Fela Kuti che si apre il podcast Un sasso nello stagno di Fabrice Olivier Dubosc.
Water get no enemy. Razzismo e colonialismo hanno lasciato tracce importanti nel nostro inconscio, al punto che ne siamo, inevitabilmente, condizionati. Uno uno dei temi delle politiche attuali anti-razziste riguarda la concezione dell’identità: da un lato, essa viene considerata come qualcosa di essenziale; dall’altro, permane la convinzione che esista una vera e propria gerarchia delle identità, determinata biologicamente. Tale concezione non è altro che il riflesso dell’eredità colonialista.
D’altronde l’essenzialismo è una corrente di pensiero che ritiene che da ciò che noi siamo possa discendere qualcosa di assolutamente necessario e inevitabile (per esempio, se sei svizzero sei inevitabilmente una persona precisa e puntale). Ed è proprio l’essenzialismo lo strumento principale usato dai razzisti.
Il razzismo trova la sua legittimità nel concetto scientifico di “razza”. Il concetto di razza è tassonomico: si usa nella classificazione animale, ma è inadatto per l’essere umano, perché non descrive oggettivamente un rapporto di parentela antenato-discendente esistente tra le popolazioni. Tuttavia, giungere alla conclusione razionale e scientifica che le razze umane non esistono non comporta la fine del razzismo, così come non si può eliminare l’idea di razza eliminando la parola “razza”. Il razzismo è incorporato nella storia e agisce anche a livello inconscio. Inoltre, a difendere la razza sono più spesso i bersagli del razzismo, sia per denunciare il problema, sia perché l’orgoglio razziale viene considerato come baluardo della difesa dell’identità. Nonostante l’ intento positivo e il sostegno dalle comunità afro-discendenti, vi sono anche coloro che ritengono queste posizioni non condivisibili: appellarsi ad un concetto sbagliato può non essere lo strumento più adatto per difendere la propria identità.
Una delle questioni centrali poste da Dubosc ruota intorno al ruolo, oggi, della propaganda razzista, costruita sul rovesciamento dell’accusa di razzismo su chi lo subisce. Basti pensare a Donald Trump, che ha scelto il Martin Luther King Day per rendere pubblico il rapporto finale della Commissione 1776, che nega gli effetti sistemici e storici del razzismo nella costruzione dell’“American dream”. Secondo il report, fin dalla fondazione degli USA, l’intento dei padri fondatori era di tipo ugualitario, non razzista. Nei loro confronti non deve pertanto essere mossa alcuna accusa di razzismo (nonostante avessero schiavi neri al loro seguito). L’identità, che viene legittimata nel rapporto, è al di fuori di ogni contingenza storica e si configura come un’affermazione naturale che non dipende dalla volontà ma dalla collocazione sociale ed economica di chi la propugna (ovvero i bianchi). Gli autori del report, infine, arrivano ad accusare i movimenti come il Black Lives Matter di coltivare una politica dell’identità in modo divisivo, incarnando l’equivalente morale degli schiavisti. Ne esce un razzismo perversamente negazionista, che “scarica” le accuse di divisione sociale sui movimenti che chiedono politiche di parità.
Nelle conclusioni Dubosc esprime la necessità di una politica de-coloniale, che riconosca le differenze senza renderle essenziali. Come scriveva Audre Lorde: “Non sono le nostre differenze a dividerci ma la nostra incapacità di riconoscere, accettare e celebrare queste differenze”.