Di Anna Meli
«Questi morti mostrano che le operazioni di ricerca e soccorso sono solo un palliativo, una soluzione temporanea rispetto alla politica fallimentare dell’Europa. Il solo modo per porre realmente fine a queste tragedie è creare vie sicure e legali per consentire a queste persone, costrette a fuggire da guerre e povertà, di trovare sicurezza senza rischiare la vita», dichiarava il 27 agosto Loris De Filippi, presidente di Medici Senza Frontiere Italia.
Richiedere vie legali e sicure di ingresso in Europa è da taluni considerata una richiesta da “idealisti” accecati da una mera logica di accoglienza indiscriminata e contraria a qualsiasi politica reale di gestione dei flussi migratori. In verità c’è una ipocrita e palese contraddizione nelle politiche europee o meglio nella non gestione europea dell’attuale flusso migratorio. Persone che il nostro sistema riconosce quali soggetti da proteggere rischiano ogni giorno la propria vita per varcare le frontiere europee.
È vero che è proprio l’attuale discussa normativa sull’asilo – l’ormai famoso trattato di Dublino – che presuppone che il viaggio verso l’Europa sia paradossalmente affare dei migranti, prevedendo la possibilità di richiesta una volta giunti in un paese dell’unione. Come ieri è stato ricordato da un articolo su questo sito riconosciamo “protezione” ad un’altissima percentuale di siriani, sebbene con sconcertanti differenze tra paese e paese, tanto che la Germania ha deciso di abolire il trattato di Dublino proprio per i cittadini di questa nazionalità. Solo che queste persone sono costrette a viaggi infernali e a rischiare la vita, oltre che a pagare altissime somme di denaro per raggiungere la “protezione” giuridica che concediamo.
Un vero drammatico paradosso. Esiste un sistema giuridico e gestionale alternativo?
La Scuola superiore di avvocatura all’indomani della strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 ha creato un gruppo di lavoro ed elaborato un documento il quale ricorda che «l’Unione europea e i singoli Stati membri hanno già avuto modo di sperimentare – al di fuori di un quadro normativo organico – modalità di riconoscimento della protezione internazionale che garantiscono in maniera enormemente più efficace la sicurezza fisica dei richiedenti asilo (nonché l’arrivo “ordinato” degli stessi, con conseguente possibilità di approntare più efficaci sistemi di accoglienza)».
Ma quali sono questi strumenti? Il gruppo di lavoro ne elenca ben quattro.
Per le procedure di ingresso protetto, di cui la Commissione europea ha presentato già nel 2003 un rapporto di fattibilità, sarebbero le ambasciate e i consolati all’estero, debitamente rafforzati in termini di personale qualificato, a raccogliere le richieste di ingresso e protezione internazionale. Si tratterebbe ad esempio nel caso dei siriani di attrezzare le ambasciate libanesi turche e di altri paesi limitrofi alla Siria, dove si rifugiano in prima istanza i cittadini siriani in fuga dalla guerra, per raccogliere le domande con svolgimento delle successive pratiche nello Stato ospite e fornendo a queste persone il relativo – seppur temporaneo – permesso di soggiorno.
La procedura di reinsediamento o resettlement è stata lanciata dall’Unhcr, l’organismo che coordina questa tipologia di operazioni, agli inizi del 2014. L’appello rivolto ai paesi di tutto il mondo riguardava 3.000 cittadini siriani che si trovavano in condizione di maggiore vulnerabilità. La lista dei paesi che avevano dato la propria disponibilità venne pubblicata in un editoriale su Internazionale il 16 maggio 2014. Il paese europeo più virtuoso era la Germania, che aveva accolto all’epoca oltre 20.000 persone. L’Italia rimaneva invece a zero. «Tale strumento sarebbe senza dubbio una soluzione durevole al problema in esame, ma al momento è ancora poco utilizzato», afferma il gruppo di lavoro della Scuola superiore di avvocatura.
Il più recente piano di corridoi umanitari organizzato in Europa risale alla guerra nei Balcani. Si tratta di una misura che prevede la demilitarizzazione e la protezione da parte di contingenti normalmente delle Nazioni Unite che permettano sia il passaggio di aiuti umanitari, ma anche l’evacuazione dei profughi da zone di guerra o da campi e il loro trasferimento in Stati disposti ad accoglierli, avviando negli stessi le pratiche per il riconoscimento dell’asilo. Certo, si tratta di una misura adatta ad attenuare solo temporaneamente la pressione ai confini dell’Europa e a offrire maggiore sicurezza a molti dei richiedenti asilo che oggi si trovano in procinto di intraprendere il viaggio via mare o via terra e non potrebbe essere l’unico strumento di risoluzione del fenomeno migratorio attuale.
L’alternativa più facilmente attuabile sembra essere quella della concessione di visti cosiddetti umanitari. Dal punto di vista giuridico si tratta di una disciplina europea contenuta sia nel Codice delle frontiere che in Schengen. Sarebbe sempre la rappresentanza diplomatica all’estero a farsi carico di una prima valutazione sommaria dei requisiti per l’ingresso e del rilascio di un visto per motivi umanitari di durata limitata. Si tratterebbe quindi di un “Visto con validità territoriale limitata”, previsto dalla normativa europea, che “consentirebbe al richiedente di viaggiare in sicurezza verso il Paese cui intende chiedere protezione e di farvi ingresso allo scopo, appunto, di presentare la relativa richiesta”.
Un ventaglio di possibilità ribadite a più riprese anche dalle associazioni che si occupano da tempo del fenomeno migratorio e che rappresenterebbero – queste sì – un vero colpo al business del traffico di essere umani.
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