Axel, Susanna, Grazia: sono nati e cresciuti in Italia, eppure trattati da stranieri. Ecco le loro storie
Di Stefano Pasta su Avvenire
Sguardi torvi, passeggeri sull’autobus che si scansano, altri che stringono la borsetta, prese in giro, incredulità perché un nero si laurea e diviene un professionista affermato. Da questi vissuti – un rapporto europeo dice che nell’Ue il 39% degli afrodiscendenti si è sentito discriminato per il colore della pelle – è nata la rete nazionale di 25 giovani Afrodescendants fighting against racism (Afar), in campo per la lotta al razzismo anti-nero e l’afrofobia. Dalla Costa D’Avorio all’hinterland milanese, dal Congo alla provincia di Bologna ma anche da Zambia, Angola, Nigeria, voci e volti di un’Italia afrodiscendente si sono uniti per contrastare e decostruire linguaggi e atteggiamenti discriminatori nei confronti delle persone di provenienza africana.
Axel Beugre, 22enne studente di Relazioni internazionali alla Cattolica, racconta di quando, a San Giuliano alle porte di Milano, la sua era ancora l’unica famiglia nera del quartiere: “In terza elementare, dopo l’ennesima giornata di insulti per il colore, cercai di convincere mia madre a mandarmi a scuola imbiancato dal borotalco. mI sentivo considerato diverso e avevo paura di parlare, stavo zitto”. Oggi Axel lo racconta sorridendo, ma sono episodi che nel vissuto quotidiano di un bambino, e ancora di più di un adolescente, lasciano segni. Per questo gli Afar hanno deciso di far sentire la loro voce. Finora hanno prodotto dei video e dei podcast, periodicamente pubblicati sul sito stop-afrofobia.org. L’azione si colloca nel progetto Champs di Amref, Csvnet, Festival Divercity, Le Réseau, Razzismo Brutta Storia, Osservatorio di Pavia, Arising Africans, Carta di Roma e Csv Marche.
Susanna Owusu Twumwah, una delle responsabili del progetto, collega il cambiamento culturale da realizzare nella società con la responsabilità delle istituzioni. Il pensiero va subito allo Ius scholae, la riforma all’esame della Camera in questi giorni: “Negare la cittadinanza a chi è cresciuto in un Paese significa colpire le vite dei più giovani. Possono subentrare problemi identitari quando stai crescendo e ti senti di fatto non riconosciuto, trattato come un cittadino di serie B, costretto in fila con la mamma per il rinnovo del permesso di soggiorno”. Susanna, ventottenne di origine ghanese nata e cresciuta in Italia, con orgoglio sottolinea che si sente romana: “I deputati dovrebbero avere il coraggio di cambiare una legge che è anacronistica e rappresentare un Paese che, come normale che sia, è cambiato”. L’attuale legge è del 1992: aggiornava le norme del 1912, ma in realtà l’impianto è rimasto quello di età giolittiana, quando il Regno d’Italia era un Paese di emigrazione (e quindi occorreva mantenere “il sangue” degli italiani che andavo all’estero) e non di immigrazione. Così oggi è italiano un giovane che nasce dall’altra parte del mondo con trisavolo del Belpaese, anche se non ha mai messo piede in Italia e non ha alcun legame con la lingua e la cultura italiana. E’ straniero ‘a casa propria’, cioè non è italiano, un ragazzo che nasce in Italia e frequenta le scuole qui. “Nel mio caso sarei potuta andare in Inghilterra con tutta la mia classe, anziché rimanere a Roma” spiega Susanna. Era in quarta superiore, aveva 17 anni ed “era troppo complicato, per soldi e tempo, chiedere il visto. Dovetti augurare buon viaggio ai miei compagni italiani in partenza”. Quando poi spense le 18 candeline, presentò la domanda per “diventare” italiana: “I miei genitori – racconta – erano stati precisissimi dopo che, poco tempo prima, lo Stato aveva respinto quella di mio fratello, anche lui nato e cresciuto a Roma”. Il motivo? Un buco di residenza di alcuni mesi in 18 anni di vita, un’esperienza molto comune per le famiglie immigrate che basta a bruciare i sogni di un giovane.
Grazia Fainelli, 31 anni, è un’altra degli Afar, figlia di una coppia mista italo-senegalese di Torino. Lui ha avuto subito la cittadinanza: per la legge attuale, basata sullo Ius sanguinis, si eredita con il sangue di almeno un genitore. “Invece, precisa, i miei cugini, nati e cresciuti anche loro in Piemonte da genitori senegalesi, hanno avuto diversi problemi, come perdere l’opportunità dell’Erasmus”. Per Grazia l’italianità è ancora associata nella percezione comune a un esclusivo colore della pelle: “Nei nostri vissuti ci sono episodi definiti micro-aggressioni: quelle volte in cui mi viene chiesto come sia possibile che io sia italiana, come mai parli italiano in modo così corretto…”. Concorda anche Loretta Maffezzoni, 27 anni, di origine nigeriane e adottata da una famiglia italiana: “Il razzismo anti-nero è radicato nella nostra società, riemerge a diversi livelli”. Lei, neolaureata in legge con l’obiettivo di diventare giudice, ne sottolinea uno: “La sottorappresentazione dei neri in alcune categorie professionali, talvolta resi invisibili. Per questo con il progetto Champs abbiamo anche lo scopo di normalizzare la presenza di corpi neri nei media”.
Immagine in evidenza di CHAMPS