Com’è cambiata l’isola di Lesbo dopo il patto Ue-Turchia? La testimonianza di Msn
15 Aprile 2016È tutto cambiato sull’isola di Lesbo. L’anno scorso più di mezzo milione di rifugiati e migranti sono sbarcati sull’isola e ad agosto in 15.000 vi sono rimasti bloccati, quando le autorità hanno sospeso i traghetti per la terraferma. Oggi tutto è pulito e ordinato, pronto per la nuova stagione turistica. I campi allestiti dai volontari e dalle organizzazioni non governative per fornire riparo temporaneo ai migranti appena sbarcati sono completamente vuoti. Le migliaia di giubbotti arancioni che ricoprivano le spiagge sono stati portati via.Ma non cadiamo nell’errore: Lesbo non è calma e pulita perché le persone hanno smesso di fuggire la guerra. Al contrario, gli uomini, le donne, i bambini che rischiano tutto su imbarcazioni precarie oggi sono detenuti dietro a un filo spinato lontano dagli occhi europei, oppure dall’altro del mare in un buco nero. L’Europa ha deciso di spazzare migranti e richiedenti asilo sotto il tappeto, come fossero polvere. Come una governante svogliata che non fa bene il suo lavoro, l’Europa cerca di nascondere il problema, togliendolo dalla nostra vista. Ma queste sono persone, non polvere. Sono uomini di tutte le età, donne e bambini, che intraprendono un viaggio incerto e pericoloso per lasciarsi alle spalle conflitti, instabilità e povertà, perché i rischi del viaggio sono inferiori ai pericoli costanti che li minacciano nei paesi di origine.L’inchiostro si è seccato sul vergognoso accordo UE-Turchia e l’hotspot di Moria è diventato un centro di detenzione. L’organizzazione per cui lavoro, Medici Senza Frontiere, ha sospeso tutte le attività all’interno del centro, perché sono venute a mancare le condizioni per fornire aiuto umanitario imparziale e indipendente. È stata una scelta difficile e controversa.Pochi giorni fa ho visitato il centro e quello che ho visto mi ha molto turbato: bambini in detenzione, privati della loro infanzia. Oggi Moria è un centro sovraffollato dove molte persone dormono all’aperto riparandosi con soli teli di plastica o cartoni. Ho incontrato un uomo che cercava disperatamente un alloggio per fare dormire la propria famiglia. Arrivato il giorno prima, aveva passato una notte, con la famiglia, sdraiato sull’asfalto. Ho incontrato molte persone che si lamentavano di non aver ricevuto cibo e una madre che cercava dei pannolini per il suo bambino e ogni volta veniva respinta. Un uomo, cardiopatico e diabetico, mi ha mostrato la cicatrice di un intervento chirurgico sul torace e ulcere alle gambe. Uno dei suoi bambini, di circa due anni, era paralizzato. Tutta la famiglia aveva passato la notte all’aperto. Non c’era nessuno a prendersi cura di loro, nessuno per informarli dei loro diritti o che cercasse loro una sistemazione più decente. C’erano due persone in sedia a rotelle e un’anziana donna che risaliva lentamente la ripida strada all’interno del centro. C’erano giovani donne e uomini anziani.
La cosa più oltraggiosa che ho visto sono i tanti, tanti bambini in detenzione, lasciati in condizioni miserabili e indecenti, senza cibo adeguato, senza scuola e senza nemmeno la possibilità di giocare. Erano ovunque: correvano, alcuni dormivano, altri venivano spinti nei passeggini. Mai avrei immaginato che bambini, donne incinte, anziani, in gran parte fuggiti dalla guerra, potessero ritrovarsi rinchiusi in un recinto di filo spinato con i cancelli chiusi. E non trovo una spiegazione accettabile al fatto che l’Europa lo lasci accadere.L’Europa, che ha fallito nel realizzare lo schema di ricollocamento dei rifugiati dagli hotspot verso i paesi europei – mostrando che non c’era un reale consenso dei paesi membri su questa strategia – ora cerca di nascondere il problema appaltando le proprie responsabilità alla Turchia. Temo che i cittadini europei non sappiano quale vergognoso accordo è stato firmato a loro nome. Se lo sapessero, proverebbero rabbia e vergogna e si sentirebbero traditi, proprio come me.Dottoressa Federica Zamatto, vice-coordinatrice delle operazioni per la migrazione di Medici senza frontiere