Pochi giorni fa un gruppo di ricercatori si è rivolto alla testata online Linkiesta con una lettera aperta in cui, commentando un reportage sulla comunità rom pubblicato lo scorso luglio, chiedeva di informare in modo più corretto i lettori, senza usare un linguaggio discriminatorio e stigmatizzante ed evitando il ricorso a stereotipi (trovate qui le motivazioni e il testo della lettera).
Riportiamo di seguito la risposta che Linkiesta ha pubblicato sul suo sito, insieme alla lettera aperta.
«Anzitutto ringraziamo i firmatari della lettera aperta. Ben vengano le critiche agli articoli che abbiamo pubblicato nei mesi scorsi, così come le proposte di riflessione offerte. Leggiamo con grande attenzione i rilievi che ci vengono mossi, così come l’invito ad “adottare linguaggi” e “veicolare informazioni” con particolari “criteri di rigorosità”. La speranza è che questo confronto possa rappresentare lo spunto per un interessante approfondimento sull’argomento trattato.
Se le critiche sono bene accette, lo sono meno le accuse di razzismo. Non condividiamo la scelta di definire questo reportage «stigmatizzante, criminalizzante e razzista». Abbiamo cercato di raccontare una realtà complessa, con tutti i limiti del caso. Ma sempre con imparzialità e distacco. E per farlo ci siamo confrontati e abbiamo riportato i punti di vista di tutte le parti in causa. Dagli abitanti dei campi, ai cittadini che risiedono lì vicino, senza dimenticare i rappresentanti delle istituzioni e le associazioni che rappresentano le comunità Rom, Sinti e Caminanti.
È difficile e forse fuorviante entrare nel merito di tutti i rilievi. A partire dalle critiche sulla descrizione di Tor di Quinto. Del resto per verificare che a poche centinaia di metri dagli aperitivi alla moda di Ponte Milvio si incontrano discariche abusive, cani randagi, baracche e prostitute in camper – a prescindere dallo “stile quasi da fiction noir” usato nel reportage – è sufficiente fare un giro in quella zona di Roma.
Ancora. Raccontare che nei campi siano stati rinvenuti panifici abusivi, non tende affatto ad improbabili paralleli con «lo sporco Far West», né tantomento a «sollevare un po’ di empatia tra i lettori nei confronti di situazioni abitative difficili». È semplice cronaca. Le istituzioni preposte al controllo dei campi ci hanno dato notizia della presenza di un panificio abusivo, tutto qui. Raccontando la vita all’interno dei campi – seppure con tutti i nostri limiti – dovevamo forse omettere questo passaggio?
Eppure ci si accusa di essere razzisti. Razzismo che «si esplicita quando i giornalisti non prendono le distanze da frasi che suonano come incitazioni alla violenza». In particolare, nella lettera aperta, si fa riferimento allo sfogo di una persona, di cui viene fornito nome e cognome, che abita vicino a uno dei principali campi di Roma ed è il presidente di un comitato di quartiere. Dichiarazioni peraltro già fornite alle autorità, come scriviamo. Dovremmo censurare queste reazioni? Siamo giornalisti, raccontiamo quello che vediamo. Cercando, al meglio delle nostre possibilità, di evitare interpretazioni o letture personali. Esattamente come abbiamo fatto riportando i punti di vista e le dichiarazioni di un abitante dello stesso campo. Ma anche delle associazioni vicine alle realtà Rom e Sinti.
Detto questo, riceviamo e pubblichiamo con grande interesse la vostra lettera aperta. Le obiezioni saranno spunto di profonda riflessione e attenta autocritica. Accettiamo volentieri rilievi, appunti e anche “liste di letture” che in futuro possano aiutarci a comprendere meglio il fenomeno e raccontare questi argomenti con maggior consapevolezza (l’umiltà è alla base di questo mestiere). Ne avremmo parlato volentieri anche a voce, sempre nell’ottica di un maggior dialogo e confronto. Purtroppo non è stato possibile».
Marco Sarti e Marco Fattorini
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