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«La crisi Covid finora ha colpito soprattutto i lavoratori precari e le filiere caratterizzate da ampio utilizzo di lavoro stagionale (es. turismo, agricoltura). Per questo, gli stranieri hanno subito una perdita del tasso di occupazione (-3,7 punti) molto più forte rispetto a quella degli Italiani (-0,6 punti). Nonostante questo, gli stranieri producono il 9% del PIL e risultano determinanti in molti settori».
L’ultimo rapporto della Fondazione Leone Moressa sull’economia dell’immigrazione presentato alla Camera dei deputati, contribuisce a sfatare molti miti sugli stranieri nel nostro Paese ed evidenzia come la crisi legata alla pandemia abbia colpito in particolare i lavoratori immigrati, soprattutto le donne. Per la prima volta, dopo molti anni, i dati relativi all’economia dell’immigrazione sono negativi, accompagnati anche da un calo dei permessi di soggiorno per lavoro. Mentre cresce però la quota di imprenditori stranieri.
«Se i posti di lavoro persi nel 2020 sono stati 456mila e un terzo ha riguardato lavoratori stranieri, la maggior parte erano donne».
«Il dato sui nuovi imprenditori racconta, da un lato, lo stato in cui si sono trovati molti lavoratori, costretti a mettersi in proprio per ragioni di necessità, e dall’altro l’apice di una crescita iniziata già da tempo, che quindi evidenzia sicuramente uno spirito diverso da parte degli stranieri nel nostro Paese», spiega Enrico Di Pasquale, Ricercatore della Fondazione Moressa.
A destare certamente il maggior interesse è il calo degli occupati: per la prima volta il tasso di occupazione degli stranieri (57,3 per cento) è inferiore a quello degli italiani (58,2 per cento). A livello territoriale, si nota come la percentuale sia diminuita maggiormente nel Nord Ovest e nelle Isole, mentre nel Nord Est si è registrata la più alta diminuzione nel tasso di occupazione degli italiani (-1,3 punti).
«La ragione è semplice: gli stranieri sono stati quelli che hanno risentito di più della pandemia, in quanto le loro occupazioni non erano tutelate dal blocco licenziamenti», sottolinea Di Pasquale. «Ovviamente non c’è solo questo. Notiamo come gli occupati italiani siano diminuiti dell’1,4 per cento, gli stranieri del 6,4: hanno certamente pagato anche la concentrazione maggiore nei settori più esposti alla crisi, come la ristorazione».
A risentirne sono state soprattutto le donne. «Se i posti di lavoro persi nel 2020 sono stati 456mila e un terzo ha riguardato lavoratori stranieri, la maggior parte erano donne, coloro che sono ancora meno tutelate rispetto agli uomini», rimarca Di Pasquale.
Inaspettato, invece, quanto emerge nel settore dell’imprenditoria, con la crisi legata all’epidemia di Covid che non ha fermato l’espansione di imprese a conduzione straniera. Nel 2020 gli imprenditori nati all’estero sono stati 740mila, pari al 9,8 per cento del totale e in aumento del 2,3 per cento rispetto al 2019 e addirittura del 29,3 per cento rispetto al 2011. Mentre, nello stesso periodo di tempo, gli imprenditori nati in Italia hanno registrato un calo dell’8,6 per cento.
Le nazionalità più numerose sono Cina, Romania, Marocco e Albania, ma la crescita più significativa si è registrata tra i nati in Bangladesh, Pakistan e Nigeria. Il settore più interessato da questa crescita è stato l’edilizia, dove gli stranieri sono il 16 per cento degli imprenditori del settore. «Questa però è l’unica notizia positiva nel mondo del lavoro, visto che gli altri dati non sono certamente positivi», evidenzia Di Pasquale.
Il problema è legato anche al fatto che, sempre nel 2020, si è toccato il minimo storico di appena 10mila permessi per motivi lavorativi su 106mila ingressi, la maggior parte dei quali dovuti a motivi familiari.
«Il valore aggiunto prodotto dagli occupati stranieri nel 2020, secondo i dati del rapporto, è stato pari a 134,4 miliardi di euro».
«Il dato è certamente clamoroso e può portare effetti negativi soprattutto in alcuni settori come quello agricolo, dove la manovalanza straniera è fondamentale», sottolinea Di Pasquale. Eppure, c’è anche un altro dato importante di cui tenere conto. «Nei cinque milioni di stranieri presenti non dobbiamo dimenticare che ogni anno quasi 100mila persone diventano cittadini italiani, perciò, negli ultimi dieci anni, sono quasi un milione gli stranieri diventati italiani presenti sul territorio», rimarca Di Pasquale.
Nonostante la crisi, però, gli immigrati restano centrali nell’economia italiana. Il valore aggiunto prodotto dagli occupati stranieri nel 2020, secondo i dati del rapporto, è stato pari a 134,4 miliardi di euro, il 9 per cento del PIL italiano, con un’incidenza maggiore del settore agricolo (17,9 per cento) e delle costruzioni (17,6 per cento).
I contribuenti stranieri in Italia sono attualmente 2,3 milioni e nel 2020 hanno dichiarato redditi per 30,3 miliardi e versato Irpef per circa 4 miliardi. Sommando le altre voci di entrata per le casse pubbliche (Irpef, Iva, imposte locali, contributi previdenziali e sociali), si ottiene un valore di 28,1 miliardi. Mentre l’impatto per la spesa pubblica si aggira sui 27,5 miliardi.
Per questo, conclude il rapporto della Fondazione Moressa, il saldo resta positivo, pari a 600 milioni. «Gli stranieri sono giovani e incidono poco su pensioni e sanità, le voci principali della spesa pubblica. Già da tempo però si comincia a notare come la curva della natalità sia in rapida decrescita», sostiene Di Pasquale.
Nel 2005 l’incidenza degli stranieri sulla popolazione era del 3,8%, oggi è all’8,2% e supera la media europea che si attesta al 6,7%. E se pure il saldo migratorio in Italia risulta ancora positivo, soprattutto grazie ai ricongiungimenti familiari, i livelli però sono più bassi rispetto al passato. Un fattore di cui l’economia di un Paese che invecchia, come l’Italia, dovrà tenere conto.
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