“Esiste una memoria collettiva riguardo al razzismo e le sue manifestazioni in Italia? Nel dibattito pubblico il razzismo è spesso associato a fatti episodici, dettati da inclinazioni politiche o difficoltà psicologiche individuali, ma è assente un’analisi rispetto alle cause strutturali. Mentre il dibattito si consuma tra aule parlamentari e dibattiti televisivi, lo iato tra cittadini con background culturali differenti e nativi italiani sembra ampliarsi inevitabilmente, e mentre questi secondi si cullano nel mito degli “italiani brava gente” i primi continuano a testimoniare gli effetti del “razzismo all’Italiana”. Così nella prefazione del dossier “Lo sguardo tagliente” (a cura di Osservatorio di Pavia per il progetto Champs), Ada Ugo Abara, Ghebremariam Tesfau, e Susanna Owusu Twumwah, inquadrano le caratteristiche del razzismo in Italia.
Forme di razzismo che, come si racconta nel dossier, dilagano in modo sempre più subdolo e strutturale. La parola “sguardo” è citata 11 volte dalle persone nere e 1 sola volta dalle persone bianche; il verbo “guardare” è ripetuto 33 volte dalle persone nere e 9 da quelle bianche. Come riporta l’intervista a una rappresentante del settore sanitario: “Vedo che mi guardano sguardo, uno sguardo diverso, come di diffidenza delle persone… oppure quando si ritrovano in un letto di ospedale e si ritrovano un’infermiera nera e leggo lo shock negli occhi”.
Il tema dello sguardo (indagatore, insistente, giudicante, impertinente) è stato ripreso da molte delle persone nere intervistate in quanto rappresentanti di settori chiave come l’istruzione, la sanità, la comunicazione. Intervistate sul tema del razzismo hanno sottolineato pervasività di episodi di razzismo nel vissuto quotidiano e professionale indipendentemente dalla collocazione lavorativa, dal genere e dal territorio di residenza. Le variabili che, nelle scienze sociali, vengono spesso utilizzate in chiave esplicativa allo scopo di rilevare eventuali differenze nelle risposte/opinioni delle persone, nella presente indagine qualitativa non sembrano aver alcun peso. Tutti gli intervistati, infatti, raccontano di episodi di razzismo nella vita professionale e personale indipendentemente dal settore di appartenenza e dal luogo di provenienza. Pur non essendo possibile alcuna inferenza o generalizzazione a campioni più vasti, questo risultato suggerisce la permanenza di pratiche razziste nel corpo sociale che, in ragione dell’assenza di violenza esplicita, non solo non vengono stigmatizzate a livello pubblico ma no vengono percepiti e compresi nella loro gravità.
Inoltre, emerge un impatto di pratiche razziste sia nella dimensione individuale sia in quella collettiva; ciò che viene evidenziato, in modo netto, dai partecipanti, parafrasando una nota espressione, è “la banalità del male”: la non consapevolezza, da parte delle persone bianche, delle conseguenze che alcuni gesti e alcune frasi razziste determinano nei percorsi di costruzione e di definizione dell’identità “intervengono al convegno giovani italiani o stranieri di seconda generazione ma nati in Italia”. “Cosa vuol dire esattamente? Giovani italiani o stranieri di seconda generazione MA nati in Italia. Se sei nero non puoi essere nato in Italia?”, si domanda un giovane medico invitato a un convegno.
Paola Barretta