di Alessio Lerda su Riforma.it
Proprio nelle settimane in cui in Italia si accende la discussione sul Ddl Zan e in Europa si alza il tono del confronto tra vertici dell’UE e Viktor Orbán sulla legge ungherese considerata da molti omofoba, l’Agenzia dell’UE per i diritti fondamentali (FRA) pubblica un rapporto che analizza i dati sui crimini d’odio in Europa.
Il documento esplora in modo molto approfondito i numeri riguardo violenze e molestie subite a causa del colore della pelle, della religione, dell’etnia, del genere, dell’orientamento sessuale o della disabilità. I risultati non sono incoraggianti: fino a 9 crimini d’odio su 10 non sarebbero denunciati, per i motivi più vari, sebbene alcuni gruppi minoritari subiscano il doppio della violenza fisica rispetto alla media degli intervistati. La colpa, nel rapporto, non viene data alle vittime, bensì all’ambiente istituzionale e sociale, che spesso non sarebbe all’altezza della situazione. Il documento include anche una serie di inviti e appelli agli stati europei per migliorare la situazione. Innanzitutto, occorre combattere la discriminazione e dare voce alle vittime; poi, rendere più facile le denunce e la loro registrazione, in modo da creare archivi completi e accessibili; infine, formare in questo senso le forze dell’ordine, affinché possano gestire al meglio questo tipo di reati e nel complesso contribuire ad un clima che da un lato li renda più rari e dall’altro più facili da segnalare.
Le forze dell’ordine sono viste come un elemento cruciale del problema, visto che molte vittime, secondo questo rapporto, evitano di denunciare il crimine perché non si fidano della polizia. Altri motivi sono proprio la difficoltà nel presentare denuncia o la rassegnazione al fatto che questa non cambierebbe la loro situazione. Appare evidente l’urgenza di un lavoro ampio, su tutti gli aspetti della questione.
Sui limiti della giustizia nel risolvere, da sola, il fenomeno dei crimini d’odio, interviene anche una riflessione del The Atlantic di qualche giorno fa, basandosi su alcune falle del sistema statunitense e su vari dubbi riguardo alle leggi in vigore. Il punto è proprio questo: le leggi ci sono, come ad esempio quella approvata quasi all’unanimità per contrastare i crimini d’odio legati alla pandemia da Covid-19, soprattutto ai danni della comunità asiatica. Ma quando si guardando i singoli processi, queste aggravanti vengono applicate raramente, per vari motivi. In caso di crimini efferati, molti pubblici ministeri evitano di includerle perché non influirebbero sulla sentenza; mentre, all’opposto, alcuni reati minori, come graffiti offensivi o vandalismo, non vengono considerati degni di procedimento penale. Nel complesso, molti pm pensano che inserire il crimine d’odio tra le accuse possa incontrare la resistenza delle giurie popolari (a riprova di come la questione non sia considerata divisiva solo in Italia), oltre ad allungare i tempi dei processi.
La conclusione di queste analisi non invita a cancellare le leggi, bensì a ripensarle per renderle più facilmente applicabili. Ma, anche in questo caso, il vero spunto è quello di lavorare anche al di fuori dei tribunali, per creare il giusto clima sociale, rafforzare la fiducia nelle forze dell’ordine, tutelare i denuncianti in tutto il loro percorso. Sfide in decisa salita in ogni parte del mondo.
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