Di Dijana Pavlovic su Articolo 21
“Le campagne pugliesi sono l’ombelico del mondo, attraverso quelle campagne passa buona parte di storia dell’umanità. Ci arrivano quelli cacciati dalle guerre, dai regimi autoritari, dai disastri ambientali provocati dall’azione predatoria delle multinazionali. Migrano dalla povertà, con la disperata determinazione nel volere approdare a un lavoro e una vita appena dignitosa. Migrano quelli a cui è stata bruciata la casa, ai quali è stato impedito di sentirsi essere umano da qualche parte del mondo”. Così mi dice Antonio Fortarezza, documentarista da tempo impegnato a raccontare lo sfruttamento sul lavoro nelle campagne del foggiano e l’illegalità diffusa che permea quel territorio, durante una lunga riflessione comune su come sia possibile che non venga raccontato in tutta la sua drammatica articolazione. Le pochissime voci che cercano di farsi spazio sono sovrastate dal rumore mediatico di un’informazione spesso distratta che non sa o che non vuole guardare oltre il fatto di cronaca, un’informazione che si accontenta di alimentare indignazione a tempo e un tanto al chilo. È invece più che mai indifferibile la necessità di dipanare il contesto sistemico nel quale è accaduta l’atroce morte di Birka e del fratellino Christian, di 4 e 2 anni, nella baraccopoli di Stornara, in provincia di Foggia.
La stampa parla della tragedia nel campo rom, di sfuggita si legge che il papà era al lavoro nelle campagne e la mamma si è allontanata per breve tempo mentre i piccoli dormivano scaldati da una stufa a legna (qualcuno scrive non a norma, come se l’insieme delle cause sociali che hanno costretto quella famiglia, insieme a tante altre, a vivere in una baraccopoli fosse invece normale). “Uccisi da una stufa a legna” dicono. C’è chi dice che ci si deve scandalizzare per come vivevano quei bambini prima dell’incendio, in condizioni disumane, senza servizi primari, in mezzo alla spazzatura, in un campo rom. C’è chi dice che luoghi come quelli – i campi rom – sono la vergogna d’Italia. Vero. Ma quali luoghi? I campi rom con le baracche e la spazzatura o gli interi pezzi del nostro Paese come quello nel quale quel campo è cresciuto a dismisura? Perché non andiamo oltre il campo rom? Perché non manteniamo costantemente alta l’attenzione sul sistema economico che quelle baraccopoli le ha, seppure di riflesso, fatte crescere e dalle quali trae vantaggi e profitti illeciti?
Lo strazio che provo da donna rom, da madre, non può nascondere la vergogna che provo da cittadina di fronte al fatto che nessuno osa dire la verità. Vengono costantemente sminuite o nascoste le dinamiche – politiche, economiche e sociali – cause di fondo per le quali questi drammi accadono da anni. Non è la prima volta che si muore di ingiustizia e di povertà nelle baraccopoli delle campagne foggiane: nel dicembre 2016 in prossimità di Borgo Mezzanone e a poco meno di 20 chilometri da Foggia, un incendio uccise Ivan Miecoganuchev, vent’anni, nel suo alloggio fatiscente dentro l’insediamento abitato da famiglie di origine bulgara. Tanti altri hanno perso la vita, uccisi da sfruttamento, non solo europei, e le colpe originarie sono sempre le stesse.Quella baracca era un piccolo pezzo del puzzle, un minuscolo pezzettino dell’ingranaggio che mantiene l’economia agricola di quella regione, uguale a molte altre regioni italiane, soprattutto quelle del Sud Italia. Un’economia basata sullo sfruttamento e sulla schiavizzazione della disperazione delle persone. Un sistema perverso nel quale su 3-4 euro all’ora pagati a tanti papà disperati, meno alle mamme disperate e ancor meno ai bambini, poco più grandi di quelli carbonizzati nella baracca, ognuno si prende la sua parte del profitto, a partire da quelli che gli fanno pagare 50 euro al mese a baracca per poterci stare, passando per i caporali, il crimine organizzato straniero con il benestare della mafia locale, arrivando alle aziende agricole. Bulgari, rumeni, migranti da ogni parte del mondo, nei ghetti, nelle baracche, nei casolari occupati, diverse migliaia, da diversi anni.
Il sindaco è triste e dice che ha segnalato la situazione. Quale situazione? Quella che esiste un campo rom? Non che non si possa comprendere la sua solitudine e la sua impotenza di fronte all’enormità del fenomeno, ma ora è il momento di dire la sua solitudine, e di dirla tutta. Se non ora quando? E’ un circolo vizioso che bisogna spezzare, consapevoli di quello che ciò significa. Se si combatte lo sfruttamento e il caporalato, si uccide l’economia, dicono. Non è vero e non possiamo permettere che l’economia del nostro Paese si basi sullo sfruttamento e sul crimine. Allora sì, lo Stato italiano e la politica italiana dovrebbero agire ora, spezzare quel circolo vizioso ripulendo quell’economia dai vincoli che la soffocano, a costo di perdere consensi e voti fra chi vorrebbe che le cose rimangano così come sono oggi. Chi tra i politici ha detto o pensa che la morte di questi due bambini è la vergogna italiana, dovrebbe fin da domani agire con una commissione parlamentare per esaminare il fenomeno, con il Ministero dell’Interno e con quello del Lavoro per pensare a un piano urgente per ristabilire la legalità e la dignità umana e quella del lavoro sui territori affetti da questo cancro. Non vogliamo e non dobbiamo tacere aspettando la prossima morte.
Foto in evidenza di Articolo 21