Quando studiare diventa uno strumento forte e reale di emancipazione da una realtà che non si desidera per se stessi, ecco che i libri acquisiscono un nuovo valore. Per Madina quella borsa di studio è stata fondamentale per venire in Italia. Avvenire ha ricostruito gli avvenimenti degli ultimi anni nell’articolo che pubblichiamo di seguito.
Di Ilaria Sesana, Avvenire, 10 aprile 2016
«Per mia madre, la cosa più importante è sapere che sto studiando per laurearmi. Pur tra le mille difficoltà che sta attraversando, ogni volta che ci sentiamo al telefono mi chiede come vanno i miei studi». Madina parla con amore e infinita ammirazione per quella mamma coraggiosa che ha sfidato le convenzioni sociali dell’Afghanistan per garantirle una vita da donna libera. Quella mamma che, assieme al marito, si è opposta con forza al matrimonio forzato che la jirga (il consiglio degli anziani, ndr) del suo villaggio le aveva imposto. Madina (nome di fantasia, ndr) vive in Italia da una decina d’anni ormai. È a pochi passi dalla laurea e dal 2010 lavora come interprete per diverse associazioni umanitarie in Italia e all’estero. Come raccontato da Avvenire, la ragazza è riuscita a sottrarsi a un matrimonio forzato, deciso dagli anziani del suo villaggio per porre fine a una faida tra la sua famiglia e quella del suo futuro sposo.
Una condizione doppiamente drammatica perché la ragazza sarebbe, di fatto, diventata una proprietà della famiglia del marito e trattata come una schiava. «La prima cosa che ho pensato, quando ho saputo della decisione del jirga di darmi in sposa a quell’uomo è stata: sono in Italia, sono salva». Ma il sollievo è durato solo pochi secoAndi: «Immediatamente ho realizzato che sarebbe stata mia madre a soffrire al posto mio». In pochi mesi Madina ha ottenuto asilo in Italia e, come previsto dalla legge, ha attivato le procedure per chiedere il ricongiungimento familiare per la madre. Ma lo scorso agosto l’Ambasciata italiana a Kabul ha respinto la richiesta di visto.
Raggiunta telefonicamente da Avvenire, Madina racconta con frustrazione l’odissea burocratica che sta affrontando da un anno e mezzo. Per prima cosa ha dovuto dimostrare la relazione di parentela, ma ora tutto si è incagliato perché la donna deve dimostrare di essere a carico della figlia. «Ma non abbiamo le ricevute del money transfer perché non ho usato que- sto sistema per mandarle il denaro – spiega la ragazza –. Voi non avete idea di quanto sia pericoloso per una donna sola vivere in Afghanistan.
Anche raggiungere l’ufficio del money transfer o l’ambasciata a Kabul per lei è un viaggio rischioso». Alle difficoltà che ogni donna in Afghanistan deve affrontare quotidianamente, la mamma di Madina (che peraltro da poco tempo è rimasta vedova) deve sommare le violenze e i soprusi causati dal rifiuto di concedere la figlia in sposa. «Un giorno degli uomini armati sono entrati in casa sua e l’hanno minacciata con una pistola per chiedere informazioni su di me – spiega Madina –. Per questo, cambia spesso casa e, per circa un mese, lo scorso gennaio ha deciso di trovare rifugio in Pakistan». Le più recenti statistiche internazionali inquadrano l’Afghanistan come uno dei Paesi più pericolosi al mondo, per le donne ma non solo. Nel 2015, ad esempio, la guerra strisciante combattuta tra i talebani e il governo di Kabul (supportato da truppe internazionali) ha causato più di 11mila vittime.
Un Paese dilaniato da trent’anni di conflitti e dove, dopo oltre 15 anni di presenza militare di forze internazionali, l’esclusione sociale delle donne e la violazione dei loro diritti continuano ad essere altissime in tutti gli ambiti. La madre di Madina, nel suo piccolo, ha voluto ribellarsi a questa situazione. In un Paese dove l’80% delle donne non sa leggere né scrivere e dove 2,4 milioni di bambine non vanno a scuola, ha lottato con tutte le sue forze per dare alla figlia un’istruzione. «Mi diceva sempre: devi studiare per non essere dipendente da un uomo», racconta la ragazza. Per questo motivo, sfidando anche il volere del marito, ha portato la figlia in Pakistan: prima tra il 1995 e il 1997 poi, dopo l’arrivo dei talebani fino al 2003.
Nel 2006, quando Madina ottiene una borsa di studio per l’Italia è ancora la donna a incoraggiare la ragazza a partire, a cogliere questa occasione. «Io mi sento in colpa nei confronti di mia mamma: io mi sono salvata da quel matrimonio che non volevo, ma lei è ancora lì», spiega Madina con la voce incrinata dalle lacrime. Non c’è giorno che non pensi a come risolvere questa situazione, non c’è sera che non si addormenti pensando a questa mamma coraggiosa a cui l’Italia non ha (ancora) dato asilo. «Ho un unico desiderio: che mia madre sia qui con me il giorno in cui discuterò la mia tesi di laurea. Perché per lei sarà la più grande vittoria». A Madina mancano solo quattro esami per tagliare il traguardo, resta da capire quanto servirà alla burocrazia italiana per trovare una soluzione.
L’articolo originale è consultabile qui
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