Italiano, rom e sinto allo stesso tempo. Miguel racconta il rapporto con le sue origini e con i media
Miguel, 32 anni, in parte rom e in parte sinto. Italiano. Da tre anni lavora con Caritas e ora sta vivendo un’esperienza professionale all’interno dell’Associazione 21 luglio, con l’obiettivo di riuscire a migliorare l’integrazione di rom e sinti che, meno fortunati di lui, ancora non riescono a essere accettati dalla società italiana. Nato in Italia, da genitori a loro volta nati in Italia, ha frequentato scuole italiane fin dalla materna. Con parenti in tanti stati europei e persino negli Stati Uniti, Miguel affonda le sue radici in paesi diversi.
Italiano, ma anche rom e sinto. Come vivi le tue origini?
«Per certi aspetti bene: la mia vita sociale “italiana”, per esempio, è ricchissima. Sono perfettamente integrato, anche perché ho frequentato tutte le scuole qui, ma non nascondo che non è stato sempre facile. Da bambino c’era sempre il coetaneo che usava la parola “zingaro” in modo dispregiativo. Sono parole cattive, che feriscono. E non è una definizione che mi appartiene: io non sono nomade, non sono zingaro. Ho vissuto in roulotte e quando ci siamo spostati è stato solo perché ci hanno mandati via, di certo non era quella la nostra volontà. Questi spostamenti mi hanno obbligato anche a cambiare tante scuole, ma nonostante ciò la mia famiglia ha continuato a credere nell’importanza del fornirmi un’educazione italiana regolare, non si sono arresi: ogni volta mi iscrivevano in un nuovo istituto. Quello che so è che quando gli viene permesso di fermarsi, il rom resta e cerca di adattarsi con i pochi strumenti che ha a disposizione. Sono venuti meno quei mestieri che in passato ci hanno resi nomadi, la maggior parte di noi non lo è più. Credo che le persone italiane, di base, siano aperte e non razziste, ma sono anche tanto influenzate da ciò che dicono le istituzioni, dai media. In una situazione del genere ho paura per il futuro, per mia figlia; non è questo il tipo di ambiente in cui vorrei che crescesse, un ambiente in cui purtroppo viene continuamente puntato il dito contro il nostro popolo».
Spesso sono i media a usare per primi termini come “nomadi” o “zingari”, ad associare insistentemente ad alcuni crimini la parola rom. Come ti senti rappresentato dalla stampa italiana?
«Finché verremo raccontati in un questo modo nessuno sarà mai in grado di capire che c’è anche un altro mondo: quello dei rom e dei sinti che come me lavorano, che partecipano alla produzione del Pil nazionale come qualsiasi italiano. Per l’errore di uno non è giusto colpevolizzare un’intera comunità. Siamo usati come capri espiatori. E i media italiani spesso usano una terminologia sbagliata, che non ci appartiene. Questo non ti permette di sentirti riconosciuto: usano un nome che non è il tuo e lo fanno in modo discriminatorio: “zingaro” è una parola piena di disprezzo, porta con sé l’odio razziale di anni e anni. Come è possibile che in un paese civile come l’Italia, culla di scrittori e poeti, ancora non si impari a usare i giusti termini? Una volta in un’intervista ho sentito chiedere: “Com’è possibile che non abbiano imparato a chiamarmi col mio nome, ma che abbiano inventato una parola tanto brutta per identificarmi?”. Le istituzioni per prime devono capire che certe parole sono sinonimo di razzismo».
Per quello che puoi leggere e vedere, i media danno abbastanza voce ai rom?
«No, raramente viene data voce ai rom e ai sinti. Sono poche le interviste che ho visto. È un problema che riguarda anche le istituzioni: quasi nessuno chiede ai rom come vogliono vivere. Qualcosa finalmente si sta muovendo, ma le politiche arrivate dall’alto, senza coinvolgerci, continuano a esistere. I rom, per esempio, sono quasi sempre ancora associati al nomadismo a livello istituzionale; questo concretamente nella maggior parte dei casi significa per un rom (di qualsiasi nazionalità egli sia) essere sistemato in un campo nomadi e non in altre soluzioni abitative. Noi lavoriamo anche per questo, per fare emergere la loro voce».
Quale atteggiamento vorresti che assumessero i media?
«Vorrei che mettessero fine all’uso di parole come “zingari”, per esempio. Niente più “nomadi”. E poi vorrei che iniziassero a parlare delle persone. E a riportare semplicemente i fatti: un conto è raccontare cosa accade, indicare la nazionalità solo per cronaca, senza secondi fini, un altro è l’accanimento mediatico contro un popolo. Perché l’etnia, quando si tratta di notizie sui rom, ha così tanta importanza?».