di Domenica Natasha Turano
Il libro “Tracciare confini. L’immigrazione nei media italiani” si inserisce in un panorama consolidato di studi sociologici sul tema della migrazione ma, lasciando da parte la descrizione della cosiddetta “società dell’immigrazione”, adotta una prospettiva critica sullo stretto rapporto che lega il fenomeno alla sua rappresentazione mediatica. Vero protagonista del volume è il giornalismo italiano, in particolare quell’informazione mainstream che offre all’opinione pubblica uno sguardo sulla realtà sociale e, di conseguenza, anche sulla complessità delle migrazioni.
Le numerose ricerche e indagini contenute all’interno del volume (che fanno riferimento agli anni a partire dal 2007) hanno permesso agli autori Marco Binotto, Marco Bruno e Valeria Lai di ricostruire scientificamente una storia fatta di limiti e possibilità mancate da parte del mondo dell’informazione, barriere comunicative che hanno tracciato nel corso degli anni dei confini simbolici tra un “noi” e un “loro”.
I media, fortemente influenzati dal discorso pubblico in termini di agenda building e di agenda setting, contribuiscono infatti alla costruzione di problemi sociali, rafforzando specifiche cornici narrative attraverso la scelta degli aspetti linguistici, la selezione e la gerarchizzazione delle notizie, la ricerca di possibili cause, spiegazioni e, infine, soluzioni.
Un’analisi fatta di prime pagine, articoli e titoli di giornali e telegiornali, rivela una certa superficialità nella trattazione di determinati eventi connessi ai fenomeni migratori, esprimendo la difficoltà che i media incontrano nel raccontare e dominare il cambiamento socioculturale della realtà contemporanea. L’ostinata centralità delle notizie riguardanti i crimini degli immigrati e la frequente etnicizzazione delle notizie spostano l’asse della discussione dalla faticosa dialettica conflitto-integrazione a quella, per molti versi molto più rassicurante, dell’Altro-come-minaccia.
Gli immigrati, e più in generale i membri di minoranze etniche o religiose, rappresentano da qualche tempo i candidati ideali per il ruolo di capri espiatori dei crescenti sentimenti di insicurezza, contribuendo in maniera decisiva alla costruzione dell’immagine dell’immigrato quale “colpevole” elettivo di qualsiasi tipo di reato. Le storie di successo tendono a non fare notizia, salvo rare eccezioni, mentre il continuo ricorso al “numero” dà vita a quella gigantografia del fenomeno che ha come conseguenza principale la sovrastima della presenza degli stranieri nel nostro Paese e la percezione di un certo effetto di accerchiamento. L’immigrazione diventa quindi un problema, viene associata alla criminalità, e la semplice presenza dei migranti si rivela un sinonimo di malessere e disordine, spesso all’origine di veri e propri fenomeni di panico morale. L’immigrato è colpevole in quanto immigrato.
Lo stesso stile linguistico dell’informazione, che ha perso progressivamente la sua autorevolezza per fare proprio un linguaggio più semplice e diretto, tende a creare veri e propri stereotipi: i toni allarmisti, che descrivono episodi di delinquenza ed esprimono la paura dell’invasione, si alternano a quelli più pietisti, usati per le tragedie in cui gli immigrati sono spesso vittime e che suscitano sentimenti di compassione. Ma è di certo anche l’uso improprio delle fonti, come i verbali delle questure, a costituire un ulteriore veicolo di diffusione di distorsioni e riproduzione di stereotipi e pregiudizi etnici e razziali.
La cattiva comprensione dei fenomeni migratori da parte dell’opinione pubblica è il sintomo più evidente della necessità di riproporre al centro del dibattito il concetto della responsabilità degli operatori dell’informazione. L’appiattimento sulla dimensione dell’arrivo, che elude qualsiasi tipo di riflessione sulle cause strutturali del fenomeno, riduce, fino quasi ad azzerare, tutta la sua complessità, fossilizzando l’informazione su immagini ormai troppo statiche per una realtà che si evolve velocemente. È questa la principale critica che il testo muove al sistema dell’informazione che, in quanto tale, non dovrebbe preoccuparsi unicamente di fornire notizie veloci e nuove, ma conoscenze e chiavi interpretative della realtà. L’origine delle distorsioni è rintracciabile in fattori diversi, quali le routine giornalistiche, le dinamiche della cultura professionale, la competizione tra le testate, ma forse anche pregiudizi e timori diffusi tanto nei media quanto nell’opinione pubblica. Gli individui fanno esperienza di alcuni aspetti o parti del mondo reale non direttamente, ma proprio attraverso la mediazione simbolica dei mezzi di comunicazione di massa e, in questo senso, l’importanza di un esercizio corretto e responsabile della professione si rivela fondamentale.
L’Italia ha molte immigrazioni, spesso diverse e non comunicanti tra loro, i risultati delle ricerche restituiscono spesso, invece, una sola immagine. Emblematico è il caso della “rivolta di Rosarno”, un fatto sociale “compreso” con grande difficoltà e quindi descritto a fatica dai grandi quotidiani di informazione nazionale. Quello che distingue questo episodio dagli altri è l’interruzione forzata di uno schema basato sull’emergenzialità per utilizzare, invece, un frame di analisi delle ragioni scatenanti la rivolta: sono gli immigrati in questa occasione a rivendicare diritti che sono di tutti, mettendoci di fronte alla drammatica evidenza che, in alcuni casi, dietro i nostri modelli di accoglienza si possono nascondere nuove forme di persecuzione e sfruttamento, rappresentative di un negato riconoscimento da parte del nostro Paese. L’elemento di rottura, rispetto al frame convenzionale della costruzione simbolica del nemico, è da rintracciare nella solidarietà mostrata verso “una presa di parola” volta a denunciare le condizioni inaccettabili di sfruttamento da parte dei diretti interessati.
Le scienze sociali, e in particolare la sociologia, studiano da tempo questo tema. Tradizionalmente il pericolo viene da fuori, ma il confine tra dentro e fuori, interno ed esterno, ha principalmente a che fare con delle metafore e con il modello culturale che costruisce la nostra rappresentazione del mondo, dei suoi confini e dei suoi rischi.
Si tratta di una concezione dello spazio socio-geografico in cui non è ancora in questione la convivenza o l’integrazione, ma la stessa legittimità della presenza dell’Altro in uno spazio percepito come “nostro”. Questa dimensione territoriale fa riferimento a una concezione ancora emergenziale dei flussi migratori: come se non fosse ancora interiorizzata la realtà di non essere più un luogo di partenza ma un luogo di approdo dei progetti migratori.
Gli autori non mancano di sottolineare l’occasione mancata per il giornalismo di raccontare il fenomeno migratorio nella sua fluidità e multidimensionalità, non cogliendone la sfida. Ponendo la narrazione su un piano di tipo esclusivamente securitario, l’informazione rafforza il clima di diffuso panico morale, creando uno stretto legame tra le routine giornalistiche, il crescente senso di insicurezza dell’opinione pubblica e la costante ricerca di consenso del discorso politico.
La ricognizione critica sulle principali ricerche realizzate in Italia permette infine di ampliare la riflessione sullo stato attuale del dibattito a livello europeo. Davanti a un’Unione Europea impegnata nel costruire muri fisici e di pensiero sempre più diffusi e sempre più alti, il libro pone una sfida proprio ai giornalisti: è necessario praticare forme di informazione interculturale, in grado di gettare ponti fra le persone appartenenti a diverse culture e di dare voce a chi non ne ha, dunque un giornalismo che sia all’altezza di un Paese già nei fatti multiculturale.
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