Di Nello Scavo su Avvenire
A mezzogiorno in punto il poliziotto afghano raduna il gruppo con il piglio di chi non ha dimenticato come si danno gli ordini. Il disertore si fa precedere da un meditato silenzio. Poi il ragazzo che guida le preghiere si alza in piedi. Comincia salmodiando, infine implora «il Misericordioso di farci arrivare insieme, tutti salvi». E di tenere alla larga le spranghe dei poliziotti croati.
Se non torneranno indietro, non vuol dire che ce l’avranno fatta. A ricordarglielo è il luogo scelto per la partenza: Merzarje, il cimitero sulla collinetta, lungo la strada che conduce al confine Nord. Ai piedi dei ceppi verdi sono sepolti gli “NN”, i caduti senza nome della rotta balcanica. L’ultimo l’hanno trovato annegato in un torrente pochi giorni fa. Un altro, completamente spolpato dai lupi nella fitta boscaglia, è stato rinvenuto da alcuni ragazzi che tentavano il “Game“. Le bestie gli hanno risparmiato solo la faccia. L’espressione del volto, che ci viene consegnata dai loro telefoni, toglie il sonno. Ma a loro non toglie la voglia di riprovarci. Perché nessuno scapperebbe per quattromila chilometri dai nuovi padroni di Kabul per finire incastrato a un passo dall’Ue.
«Molti altri ne stanno arrivando – assicura l’ex agente –. Adesso comincia l’inverno, ma quando sarà primavera altre migliaia di afghani riusciranno a raggiungere questi luoghi». Quest’anno dal Paese si stima siano transitate non meno di 10mila persone: circa 5mila si trovano ancora all’interno, ma si tratta di stime prudenziali.È il momento. L’improvvisato muezzin smette. Il “Game” comincia. Qualcuno ascoltava in lacrime. La spalla fa ancora male, dopo l’ultima gragnuola di manganellate degli agenti croati. Altri ridono per esorcizzare la malasorte che qui ha un solo nome: pushback, i violenti respingimenti alla frontiera.
Il “Border Violence Monitoring Network” ha esaminato e verificato 35 pushback solo a settembre e ai danni di 815 persone. Più di uno al giorno. «Oggi non toccherà a noi» si ripetono a vicenda come combattenti prima di assaltare le prime linee nemiche.Il poliziotto ci ha messo un paio di mesi ad arrivare fin sull’altopiano, che preannuncia quei monti che l’autunno colora di rosso. Il viaggio gli è costato parecchi risparmi, specie per pagarsi certe scorciatoie. Del resto «il ministero non ci pagava lo stipendio da tempo e, se proprio devo morire, almeno non sarà per mano dei taliban».
Anche per i governanti della Bosnia è una questione di soldi. Argomento spinoso, in un Paese che nell’ultimo anno ha perso 10 posizioni nella graduatoria mondiale della corruzione, ora al 111esimo posto su 180 Stati analizzati da Transparency International. Difficile sapere con certezza che fine faccia tutto il denaro. Dall’inizio del 2018 Bruxelles ha fornito più di 88 milioni di euro direttamente alla Bosnia-Erzegovina o tramite organizzazioni partner per far fronte alle esigenze immediate di rifugiati, richiedenti asilo e migranti.
I piccoli Erdogan dei cantoni balcanici sanno di avere il coltello dalla parte del manico. Per esempio rifiutandosi di aprire ulteriori strutture di accoglienza o chiudendone alcune tra quelle esistenti, come quelle fin dall’inizio definite “temporanee” a Bira a Bihac. E, in mancanza di un tetto, la frequenza degli attraversamenti cresce.
Giovedì sera si era sparsa la voce che una delegazione di europarlamentari sarebbe tornata per dare un’occhiata. All’alba di venerdì le ruspe spianavano l’accampamento di Velika Kladusa, con le famiglie caricate di peso e trasportate 400 chilometri più a sud, a Sarajevo. Non prima di avere decretato per i migranti il divieto di trasporto su autobus pubblici o taxi privati. «Non è una questione di soldi», vanno ripetendo il sindaco di Bihac e il governatore del cantone di Una-Sana. Sarà, ma mai una volta che i bonifici vengano respinti al mittente. A giugno la Banca di sviluppo del Consiglio d’Europa e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni hanno firmato tre accordi di sovvenzione, per un valore totale di 900mila euro, indirizzati all’assistenza essenziale a migranti e rifugiati in Bosnia-Erzegovina e Macedonia del Nord. Il nuovo stanziamento si è reso necessario a causa della pandemia. Complessivamente la Banca ha messo a disposizione dei progetti nel Balcani quasi 14 milioni di euro. Da sommare agli 88 dell’Ue.
Il campo di Lipa resta il simbolo del ricatto. Grazie al lavoro delle organizzazioni come Ipsia-Acli, Caritas e Croce rossa, è stata concessa mesi fa l’apertura di un tendone-refettorio dove si può prendere un caffè caldo, giocare a scacchi e perfino a badminton. Gli europarlamentari venuti a controllare a nove mesi di distanza hanno trovato parecchi miglioramenti e i lavori in corso per l’apertura di un campo nel quale accogliere i migranti non più dentro alle tende militari, ma all’interno di container riscaldati con sei posti letto. «Siamo ancora lontani dagli standard che ci attendevamo venissero rispettati. Si sono fatti passi avanti, ma si sono spesi anche molti fondi, per poi vedere che in questi piccoli spazi potrebbero venire ammassate fino a 1.500 persone», dice la delegazione del gruppo dei socialdemocratici composta da Alessandra Moretti, Elisabetta Gualmini, Pietro Bartolo e Pierfrancesco Majorino.
Fuori dal campo di Lipa, sotto gli occhi della polizia, nella spianata di fango in mezzo al niente, sono stati aperti un paio di minimarket e un bar con veranda sul campo profughi. Li gestiscono alcuni commercianti di Bihac che hanno trasformato vecchi container in negozi di fortuna. E siccome per fare affari ci vuole fiuto, certo ne ha avuto il bottegaio che ha installato una baracca con tanto di insegna: “Game shop“. Vende l’occorrente per il percorso: torce, accendini, sacchi a pelo usati, power bank, barrette energetiche, vecchi cellulari, sim card e nastro adesivo con cui impacchettare e sigillare le poche cose della vita di prima: foto dei familiari, numeri di telefono da non perdere, gli ultimi spiccioli rimasti in tasca.È anche da questo che al cimitero di Mezarje capiscono se i morti senza nome sono vittime di un respingimento o se stavano ancora tentando il passaggio del confine. Di solito, i respinti, vengono spogliati e ripuliti di ogni centesimo e ogni ricordo. Dovessero cadere senza più rialzarsi, di loro non resterebbe che un mucchio di terra. E nessun colpevole.
La cancelliera tedesca Angela Merkel ha ricordato in un’intervista all’edizione domenicale della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» le sfide affrontate dopo l’arrivo di quasi 890mila migranti in Germania nel 2015. «La situazione in quel momento era pressante anche per me, perché sapevo, come tutti, che 10mila persone non potevano trasferirsi in Germania ogni giorno in modo permanente, ma che bisognava trovare strade percorribili sia per le persone in cerca di rifugio che per il nostro Paese».Merkel ha ricordato di aver presto pensato a raggiungere un accordo con la Turchia in modo che i profughi siriani potessero essere accolti e curati lì. «Ma avevo bisogno di un po’ di tempo», ha aggiunto. La cancelliera ha ribadito che la Germania non può risolvere da sola la questione migratoria, «almeno non in modo sostenibile a lungo termine, ma – ed è nella natura della cosa – solo come parte dell’Europa e in questo caso specifico solo insieme alla Turchia».
«Il fatto che l’accordo con la Turchia abbia avuto successo è positivo per entrambe le parti fino ad oggi», ha aggiunto, sottolineando il valore dell’intesa, che le sembra ancora significativa: «Ha fatto molto per portare più ordine nelle migrazioni e per aiutare la Turchia a trattare con dignità i milioni di rifugiati siriani presenti. E ha frustrato per anni il malvagio traffico dei contrabbandieri e trafficanti».
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